A leggere una delle ultime puntate dell’epopea de L’Unità con decine di giornalisti e tre ex direttori che sentono bussare alla porta un ufficiale giudiziario e con pignoramenti ed ipoteche per centinaia di migliaia di euro che graveranno sulle loro vite per gli anni a venire per aver fatto – magari talvolta anche sbagliando – il loro lavoro si ha la dolorosa sensazione che i numeri delle classifiche internazionali che negli ultimi mesi hanno raccontato di quanto nel nostro Paese la libertà di informazione conti poco, non solo siano attendibili ma siano, sfortunatamente, migliori di quelli del prossimo anno che racconteranno, a ragione, di un Paese nel quale il mestiere del giornalista è ancora più a rischio e la sua libertà di parola ancor più limitata.

Ma numeri a parte, la storia del L’Unità che Concita de Gregorio, ex direttrice del giornale, fondato nel 1924 da Antonio Gramsci ha raccontato nei giorni scorsi non può lasciare indifferenti, né essere trattata come uno dei tanti sfortunati episodi della storia dell’informazione e dell’editoria italiana perché non si tratta di un episodio ma, più drammatica, di una conseguenza, possibile ed anzi probabile di un sistema malato, figlio di tessuto normativo, da tempo, in crisi e che, purtroppo – anche a scorrere il disegno di legge in materia di diffamazione al quale sta lavorando il Parlamento – non sembra destinato a migliorare.

E si sbaglierebbe a puntare l’indice – come, pure, giustamente in queste ore stanno facendo gli ex giornalisti e direttori de L’Unità – solo sugli editori che si sono succeduti nella proprietà del giornale e sugli amministratori che l’hanno gestito.

Le responsabilità in questa vicenda e nelle decine di altre consumatesi in passato e che si consumeranno in futuro, magari senza saltare agli onori della cronaca sono diffuse ed appartengono, indiscutibilmente, alla politica ma anche alle associazioni di categoria di giornalisti ed editori e, naturalmente, all’Ordine professionale.

Guai, infatti, a trascurare la circostanza che il coro di solidarietà ai giornalisti de L’Unità e le proposte di interventi – economici e normativi – salvifici hanno iniziato a risuonare più forte quando l’ultimo episodio della vicenda de L’Unità era ormai mediaticamente deflagrato e non prima, sebbene i suoi contorni allarmanti e preoccupanti fossero noti da tempo, a tanti.

Ma è inutile piangere sul latte versato e sarebbe sciocco, oggi, recriminare su ciò che avrebbe potuto essere fatto e non si è fatto o si è fatto con poca convinzione da parte di chi ha occupato gli scranni più alti della Repubblica ma anche da parte di chi rappresentando – da una parte o dall’altra – il c.d. quarto potere non è riuscito, o non ha neppure provato, ad influenzare chi ci ha governato sin qui, perché garantisse di più e meglio la libertà di informazione, pietra angolare della democrazia.

Val la pena, però, almeno, di far tesoro della lezione de L’Unità perché non capiti di nuovo.

E val la pena, allora, ricordare che i giornalisti e gli ex direttori che oggi rischiano di pagare di tasca loro, risarcimenti dei danni stellari, a personaggi – nella più parte dei casi, probabilmente, pubblici e, magari, politici – che i giudici hanno ritenuto esser stati da loro diffamati, hanno lavorato per un giornale, recordman indiscusso nella raccolta dei contributi pubblici all’editoria.

152 milioni di euro in 24 anni, con una media di 6,3 milioni all’anno, e di oltre 500 mila euro al mese, o 17 mila euro al giorno – come hanno scritto qualche mese fa, su questo stesso giornale, Primo di Nicola e Francesco Giurato – i contributi affluiti nelle casse de L’Unità tra il 1990 ed il 2013.

Un fiume di denaro pubblico, una montagna di soldi nostri, dragati dal Paese e consegnati agli editori che si sono succeduti nella proprietà del giornale per consentire loro – ma soprattutto per consentire ai giornalisti che hanno lavorato per loro – di fare informazione libera, nell’interesse del Paese.

E’ inaccettabile, davanti a numeri e cifre di questo genere, dover leggere, oggi, che quel fiume di denaro non è valso neppure a garantire a chi ha fatto informazione sotto quella testata, finanziata con i soldi di milioni di italiani, la serenità di continuare a fare il proprio lavoro e a continuare ad informare e formare la coscienza collettiva.

E’ inaccettabile che, oggi, quelle persone – che pure, probabilmente, hanno commesso, in proprio, degli errori ma lo hanno fatto nell’esercizio di una professione di indubbio rilievo democratico tanto da essere finanziata con risorse pubbliche – rischino, per davvero, di pagare di tasca loro, con la loro casa e con il loro futuro mentre altri hanno lasciato che quel fiume di denaro si prosciugasse, investendolo male o non esigendo che fosse investito bene.

Questo, sembrerebbe ovvio, non debba accadere più.

Qualsiasi forma di contributo pubblico all’editoria che, in questo Paese, si pensasse ancora di destinare a chi fa informazione dovrà, necessariamente, essere vincolata, in via prioritaria, a garantire che chi fa informazione non corra rischi analoghi a quelli che stanno correndo i giornalisti che hanno lavorato per uno dei giornali più finanziato della storia del Paese.

Ma c’è anche un’altra lezione che bisognerebbe saper leggere, tra le righe di quest’ultima drammatica puntata de la storia de L’Unità.

Se decine di giornalisti e tre ex direttori, oggi, si vedono addirittura bussare alla porta un ufficiale giudiziario e rischiano di perdere casa e future prospettive di vita per aver sbagliato e per aver – almeno secondo i giudici e secondo quella verità sempre parziale perché figlia di una serie interminabile di variabili che emerge dai processi – leso l’immagine o la reputazione di qualcuno, questo significa o dovrebbe significare che il sacrosanto principio giusto e democratico secondo il quale chi sbaglia paga, nel sistema dell’informazione di casa nostra, è già garantito – forse, persino, fin troppo – dalla giustizia civile e dalle azioni risarcitorie.

A che serve, dunque – come, invece, il Parlamento sta ostinatamente facendo – “doppiare” questo sistema che è già sufficientemente “sanzionatorio” e che rende già evidentemente rischiosa l’attività di chi fa informazione con una sovrastruttura normativa di matrice penale che oggi – secondo il disegno di legge che potrebbe vedere la luce nei prossimi mesi e che avrebbe dovuto depenalizzare la diffamazione come la comunità internazionale ci chiede di fare da anni – minaccia di sentir condannare giornalisti e direttori a sanzioni pecuniarie salate, di entità centinaia di volte superiore, almeno nella media, a quanto si è guadagnato raccontando la storia all’origine della sanzione?

Se fossimo in un Paese capace di ascoltare le lezioni della storia, cambieremmo subito il testo del disegno di legge sulla diffamazione, eliminando migliaia di caratteri con una riga soltanto che ricordi che chi sbaglia paga e chi assume di essere stato diffamato dalle altrui parole ha diritto – come già oggi prevede la legge e come, la storia de L’Unità, tra le tante, racconta che già accade sul serio – ad essere risarcito.

Il resto non è garanzia democratica ma disincentivo antidemocratico all’esercizio libero della libertà di parola, non fa onore ad un Paese che ha l’ambizione di essere civile e comporterà negli anni a venire un’ulteriore diminuzione della libertà di informazione e, con essa, un impoverimento democratico.

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