Tutto il mondo è Paese. Mentre in Italia il governo Renzi, dopo trionfalismi prematuri, fa i conti con una disoccupazione di nuovo in crescita nel mese di avvio del Jobs Act, in Spagna l’esecutivo di Mariano Rajoy gongola per i nuovi dati sul lavoro ma si guarda bene dall’esaminarli nel dettaglio. Nel mese di aprile, secondo quanto riportato dal dicastero del Lavoro e della sicurezza sociale di Fátima Báñez, sono stati creati 175.495 posti, la maggior crescita dal 2001 quando in carica c’era l’esecutivo di José María Aznar e la bolla immobiliare cresceva silenziosamente di mattone in mattone. Con questa cifra il Partito Popolare (Pp) taglia un traguardo sognato. Dal dicembre 2011 – ovvero dal primo giorno effettivo del gabinetto guidato dal premier galiziano – a oggi i disoccupati sono calati di 89.343 unità e la forza lavoro supera i 17 milioni di persone, livello che non si registrava dal 2012. Un risultato che senza dubbio verrà rivendicato fino alle prossime elezioni generali previste per fine anno. Anche perché la cifra registrata per aprile è il doppio rispetto alle stime degli analisti (Bloomberg si fermava a 65mila unità) e coinvolge tutti i settori e tutte le comunità autonome.

Molto bene il settore alberghiero e della ristorazione (70.509 lavoratori in più), seguito dall’amministrativo e dal terziario. Bene anche l’agricoltura, meno l’industria. In calle Genova, la sede del Pp, non mancheranno le bottiglie di Cava per festeggiare. Peccato che, strategie politiche e dichiarazioni di entusiasmo a parte, da un’analisi più attenta dei dati esca un quadro molto meno roseo. Innanzitutto, aprile è generalmente un mese favorevole per la firma di nuovi contratti e nel 2015 ha beneficiato anche della settimana pasquale, un ottimo traino per un Paese che vive moltissimo di turismo straniero, in particolare britannico, russo e cinese. Come diretta conseguenza, il 91% delle nuove assunzioni è di natura temporanea: contratti che vanno dai tre ai sei mesi (rinegoziabili) e per la metà sono part time. Peraltro non è strano che, dopo la repentina caduta del prodotto interno lordo degli ultimi anni, ora che il governo prevede per il 2015 una crescita del pil del 3% (la Commissione Ue la dà al 2,8%) ci sia un rimbalzo dell’occupazione. Ma parlare di una grande crescita è del tutto esagerato, visto che il tasso di disoccupazione rimane sopra il 20 per cento.

Più in generale, il bilancio della liberalizzazione del mercato del lavoro varata dal governo Rajoy nel 2012 anche per accontentare i governanti di Bruxelles non è brillante. Nel primo trimestre di quest’anno sono stati sottoscritti 541mila contratti per braccianti agricoli (+12%), 446mila per camerieri (+19%), 265mila nelle imprese di pulizia (+4%), 265mila per gli operai non qualificati dell’industria manifatturiera (+8%), 260mila nell’edilizia (+5%). I peones, come vengono chiamati qui, rappresentano quasi il 45% dei nuovi occupati. Al contrario, solo il 13% di chi ha trovato un lavoro da gennaio a oggi ha una laurea. Gli altri ragazzi con una formazione universitaria sono emigrati o ancora a casa in attesa di trovare un’occupazione.

Quanto alla qualità dell’occupazione, il 24% dei contratti dura meno di una settimana e il 40% meno di un mese. Chi ha la fortuna di firmare un indeterminato non ha alcuna garanzia di non essere licenziato. Bastano una mail o una telefonata del datore di lavoro e il giorno dopo si resta a casa, senza che l’azienda debba pagare alcuna penale. I contratti a lungo termine, quelli che dovrebbero garantire una produttività duratura, sono invece appena il 6,7% del totale. La chiamano flessibilità ma fa spesso rima con disuguaglianza. Rajoy lo sa bene ma preferisce nascondere la verità e pavoneggiarsi con i numeri. In fin dei conti deve guardare alle prossime elezioni, non alla stabilità dei neo assunti.

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