I cristiani di Qaraqosh rifugiati a ErbilLa questione dei cristiani in Medio Oriente ha mille risvolti ma il vero punto d’attacco è la sindrome della protezione.

L’idea cardine è che con l’Islam non sia possibile vivere se non come minoranza protetta, sulla base dello stereotipo che solo questo è tecnicamente possibile in paesi a maggioranza musulmana. Lo dimostrerebbe la storia, cancellando così il lungo percorso che condusse al biennio costituzionale ottomano, quando divenne possibile essere cittadini.

La brevità di quell’esperienza ha favorito una scuola di pensiero che ritiene impossibile creare la cittadinanza nei paesi islamici, e dunque i cristiani si sono in linea di massima trincerati sulla linea “meglio protetti da un raìs benevolo“. Questo nei fatti favorisce il mantenimento di un potere politico da parte dei vescovi e dei patriarchi, che rimangono a capo delle loro comunità, come era ai tempi degli ottomani.

Eppure proprio il Libano dimostra che un paese nato come “stato dei cristiani” è potuto diventare uno stato multiconfessionale dove i diritti dei cristiani sono preservati e tutelati anche se non sono più del 30% reale della popolazione.

La sindrome della protezione ha portato molto spesso (se non quasi sempre) i cristiani a prediligere un raìs (Saddam, Asad, Mubarak) che li tutelasse e garantisse da un regime islamista, visto come il rischio mortale. Così facendo non si è avuto modo di denunciare il fallimento totale di questi regimi, la crisi politica, economica, culturale, democratica, epocale che hanno determinato nei loro Paesi, sempre in nome di un rischio maggiore. Ma il prezzo pagato è stato enorme: in quelle condizioni nessuno ci voleva restare in quei paesi e così i cristiani sono fuggiti da Egitto, Siria, Iraq: basti ricordare che all’inizio dell’epoca Asad erano il doppio di quanti erano nel 2011.

Il problema, di tutta evidenza, è riconoscere, come fece Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica post-sinodale “Una speranza nuova per il Libano” che i cristiani non sono un corpo estraneo alle loro società, hanno dato un enorme contributo alla cultura araba, e dentro la cultura araba devono lavorare a costruire le condizioni per uno sviluppo verso la costruzione di una società democratica. Questo non è successo nel decisivo 2011, quando la paura di un crollo dei regimi ha fatto temere che poi arrivassero gli islamisti. E in nome di questa paura si è preferito difendere quei regimi che hanno creato un sistema invivibile al punto da ridurre in pochi decenni le comunità cristiane del 50%.

Il caso siriano è il più emblematico. I settori del mondo cristiano più vicini al cosiddetto mondo lefebvriano hanno trasformato la pagina decisiva, l’assedio di Homs da parte del regime di Asad, in un assalto ai cristiani da parte delle milizie islamiste. Non fu così, ma lì si spezzò il rapporto tra Occidente e rivoluzione siriana, presentandola per quello che al tempo non era, una lotta di miliziani jihadisti contro Asad e i cristiani.

I cristiani dunque oggi hanno un ruolo decisivo, quello di riproporre il modello libanese come modello per tutto il Levante e anche l’Iraq. Gli accordi pace che hanno salvato il Libano dopo 15 anni di guerra civile sono validi ancora oggi e lo sono anche per Siria e Iraq: prevedono un senato delle comunità con parità di seggi islamo-cristiana, in modo che nessuna comunità tema di nuovo di essere cancellata, e un parlamento eletto su base partitica, in modo che le comunità non diventino delle gabbie che danno all’uomo mediorientale solo identità religiosa. Interessante notare che quell’accordo venne accettato da tutte le comunità islamiche presenti in Libano, chi ne ha impedito una piena attuazione fu, guarda caso, il regime siriano, che non voleva sentir parlare di pluripartitismo.

Inclusività è la parola d’ordine di una possibile democrazia consensuale araba.

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