Matteo Renzi non ha mai avuto un vero lavoro, di quelli con un capo che ti controlla e ti può licenziare, con scadenze da rispettare e il fisco che incombe: dopo qualche anno nell’azienda di famiglia, ha sempre fatto politica. Avrebbe quindi poche ragioni per sentirsi coinvolto nella Festa del Lavoro di oggi se non fosse che questo Primo maggio è anche il primo nell’era del suo Jobs Act.

Proprio ieri, l’Istat ha tolto però gli ultimi dubbi: l’intervento in due tappe sul mercato del lavoro del governo non ha fatto miracoli. Gli incentivi di 8 mila euro all’anno per tre anni per le nuove assunzioni hanno stabilizzato precari (bene, ma non sono posti nuovi) e l’indebolimento dell’articolo 18 sul reintegro in caso di licenziamento ingiusto non ha innescato un boom di occupazione. Il Jobs Act è in vigore dal 7 marzo e in quel mese gli occupati sono diminuiti di 59 mila unità e la disoccupazione è salita al 13%, in rialzo dello 0,2. Troppo presto per misurare gli effetti del Jobs Act, si dirà. Ma è stato lo stesso governo a creare aspettative irrealistiche, con il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che celebrava decine di migliaia di nuovi posti inesistenti.

In questo primo maggio del Jobs Act, però, un bilancio è comunque lecito. Renzi è arrivato al governo con i voti di tanti italiani rimasti ai margini del mercato del lavoro che hanno creduto alla promessa di un nuovo patto, anche tra generazioni, che riducesse le disparità. Non è successo. Anzi: i precari restano precari e si sta creando una nuova segmentazione: chi ha potere contrattuale chiede, al momento dell’assunzione, che a lui si applichino le vecchie regole. Ieri diritti, oggi benefit, come i buoni pasto.

Il contratto a tutele crescenti, con gli indennizzi progressivi in caso di licenziamento, aiuta le imprese a liberarsi dei dipendenti in esubero. Ma non incentiva il passaggio da altre forme contrattuali precarie a questo nuovo tempo indeterminato meno tutelato. Tanto che il governo per tre anni offre considerevoli incentivi alle assunzioni, 8 mila euro. Se le imprese li prendono e licenziano prima del terzo anno, hanno un guadagno netto. Non è un errore: la scommessa di Renzi e Paodan è che se si fanno più assunzioni oggi ci saranno più consumi, dunque più crescita e nessuno sarà licenziato.

L’economia si cambia anche agendo sulle aspettative. Ma, al contempo, il governo (e il Pd) ha sfidato i sindacati, umiliando vertici e iscritti a ogni occasione utile, e si è schierato col manager simbolo di un rapporto di forza tutto spostato sull’impresa, Sergio Marchionne. Intendiamoci: i sindacati hanno fatto di tutto per meritarsi critiche e discredito: lo stipendio da 336 mila euro di Raffaele Bonanni della Cisl, la gestione della formazione professionale, l’evoluzione della Cgil in un sindacato di pensionati, aziende pubbliche come le Poste spartite come feudi personali…

Ma terrorizzare masse di lavoratori già preoccupati spiegando loro che ogni rivendicazione è un freno al progresso non è il modo migliore per trasformarli in consumatori sereni e ottimisti. La mancanza di empatia verso milioni di persone angosciate dal proprio futuro lavorativo potrebbe essere tollerata se le politiche applicate fossero dure ma lungimiranti. Mentre nel resto del mondo (Germania, Usa), la politica chiede alle imprese “come possiamo formare i lavoratori che vi serviranno?” da noi il governo ha fatto una domanda diversa, “come possiamo aiutarvi a dismettere i lavoratori che non vi servono più?”.

Renzi non può quindi stupirsi se oggi il Pd è molto più popolare nei corridoi di Confindustria che nelle piazze dove oggi si celebra il lavoro. O si piange la sua scomparsa.

Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2015

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