Cultura

“Fare pace”, reportage dalle zone di guerra e riflessioni sulla ‘necessità del disarmo’ nel libro di Giulio Marcon

Il parlamentare racconta dall’interno la sua esperienza negli scenari di guerra dal 1989 in poi: "Il mio tentativo è quello di tradurre l’esperienza fatta in questi anni in atti concreti alla Camera, che ribadiscano la centralità di un’impostazione pacifista", spiega a FQ Magazine. "È difficile, perché il parlamento è impermeabile a questi argomenti. Qualcosa però si riesce a fare"

di Marco De Vidi

Fare pace” è un libro di stretta attualità. La guerra, purtroppo, non passa mai di moda. Cambiano gli scenari, le dotazioni tecnologiche, gli schieramenti in gioco; ma la comparsa di sempre nuovi (e vecchi) conflitti sembra non doversi arrestare mai. C’è sempre stato però chi ha cercato di opporsi a questa apparente ineluttabilità. I temi della pace e della non violenza sono stati centrali nell’azione politica di molti movimenti, associazioni, organizzazioni civiche e religiose. Giulio Marcon, che per anni è stato a capo delle maggiori realtà del pacifismo italiano (come l’Associazione per la pace e il Consorzio di solidarietà), racconta dall’interno la sua esperienza negli scenari di guerra dal 1989 in poi. Proprio il crollo del muro di Berlino, che tante illusioni aveva generato in quanto simbolo della fine della guerra fredda, rappresenta un evento cruciale per la ridefinizione del movimento pacifista, costretto a confrontarsi con nuove e brutali situazioni, come l’invasione dell’Iraq nel 1991 e la dissoluzione violenta della Jugoslavia.

Il libro, che è anche una riflessione teorica sulle pratiche del pacifismo, presenta alcuni reportage da scenari come la Jugoslavia devastata dalla guerra etnica, dal Kosovo, dal Medio Oriente in perenne tensione, dall’Iraq nei mesi della destituzione di Saddam Hussein nel 2003. Marcon ora è in parlamento, eletto deputato nelle file di Sel nell’ultima legislatura. “Il mio tentativo è quello di tradurre l’esperienza fatta in questi anni in atti concreti alla Camera, che ribadiscano la centralità di un’impostazione pacifista”, spiega. “È difficile, perché il parlamento è impermeabile a questi argomenti. Qualcosa però si riesce a fare. Un anno e mezzo fa, ad esempio, siamo riusciti a far approvare un emendamento per avviare una sperimentazione triennale grazie a cui 500 giovani potranno andare a fare un’esperienza con i corpi civili di pace nelle aree di conflitto. Ci sono state piccole riduzioni della spesa militare in aree di instabilità, oppure riguardo gli F35 siamo riusciti a giungere a una mozione che dimezza le spese relative all’acquisto dei caccia, questo lo scorso settembre”.

Si tratta di questioni fatalmente collegate alla necessità del disarmo. “È chiaro. Le armi vengono prodotte per essere usate. C’è un problema di divulgazione di questa produzione e soprattutto del commercio verso paesi che queste armi le usano. È vero che noi abbiamo la legge 185 del 1990 che regola il commercio degli armamenti, è anche vero però che noi abbiamo venduto armi alla Libia, continuiamo a venderne a Israele, o alla Turchia, paesi cioè che sono stati o sono tuttora impegnati in azioni di guerra. E questo ovviamente non va bene”.

Tra le pagine più intense del libro ci sono quelle che riportano il diario degli avvenimenti in Jugoslavia. Il racconto dei tentativi fatti dai pacifisti italiani per evitare il precipitare degli eventi segue i luoghi via via contagiati dal conflitto, fino alle drammatiche spedizioni in Bosnia, tra Sarajevo, Mostar e Tuzla, città cui è indissolubilmente legata la figura di Alexander Langer. L’europarlamentare altoatesino, suicidatosi nel luglio del 1995, fino alla fine si è speso in iniziative che promuovessero il dialogo e il sostegno a chi si opponeva alla guerra. “Langer testimoniava una diversità, un modo diverso di intendere la politica”, ricorda Marcon. “Ha sempre avuto un’idea di concretezza, di solidarietà molto pragmatica. Era un uomo che pensava alla politica come costruzione di legami. In questi luoghi lo ricordano con affetto, è stata una presenza importante per chi lavorava con noi in quegli anni”.

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