Mi è capitato di fare un viaggio insolito di recente, spinta da quella voglia di scoprire e guardare le cose da me. Con gli occhi da cronista. Così come sono andata a San Francisco per la Silicon Valley o a Bruxelles nel quartiere dove reclutano jihadisti, con la stessa intensità, sono arrivata fino ad Hebron, in Palestina.

Ho conosciuto delle persone che mi hanno aiutato nella ricerca, a dare un senso di appagamento (almeno) a quei miei giorni di curiosità. Lunedì scorso su il Fatto Quotidiano è uscito il mio reportage, e da quel lavoro è nato anche un video, che ho diffuso su YouTube, ha già quasi 40 mila visualizzazioni, sono tante, sono già uno stadio pieno). Di foto ne ho fatte più di 2500, le migliori sono finite in quel ‘corto’. Di parole ne avevo, ne ho miliardi di miliardi, alcune sono finite in quelle pagine.

Il commento più bello me lo ha fatto il figlio di un mio amico, lui ha soli 16 anni. Mi ha detto che gli è piaciuto molto perché mostra un lato che non siamo abituati a vedere di quei posti. Mi piacerebbe avere altre impressioni, altri commenti. Un’ultima cosa che volevo raccontare è una scena che non dimenticherò mai: quel momento, quel preciso istante in cui sono andata via dallo stadio Hebron. Dovete immaginarla, così come ce l’ho nella mia testa: allenamenti dell’Al Ahli, una ventina di persone in campo (oltre a quelli fuori dal ‘campo per destinazione’ che saranno state una cinquantina), la squadra è dall’altra parte del campo, io saluto frettolosamente con la mano e mi avvio lentamente, molto lentamente, a testa bassa, verso le scale a metà campo che mi porteranno agli spalti e poi all’uscita.

Il tratto pare non finire mai, il silenzio è quello che solo un campo di calcio deserto può far sentire. I passi, uno dopo l’altro, e poi le scale, uno due sei undici scalini, e poi di nuovo il tratto lungo di campo costeggiando gli spalti. Non alzo mai gli occhi, di nuovo la stessa camminata in solitaria, quando succede una cosa strana: arrivo all’ultima fila di seggiolini, sento distintamente un battito di mano, singolo, solitario, che poi diventano due, il battito di mano diventa ritmato e sordo, due gruppetti separati stanno battendo le mani adesso, disorganizzati, scomposti; la porta l’ho quasi raggiunta, alzo la testa verso i ragazzi, per capire cosa sta succedendo, e in quel secondo di tempo, in quel preciso istante l’applauso diventa di tutti. Un applauso assordante, composto, bellissimo, da togliere il fiato. Quella mia esperienza a Hebron è stata particolare anche perché sono una donna, e in un paese arabo come quello le donne non sono certo ammesse ad assistere alle competizioni sportive o alla vita di tutti i giorni come ho vissuto io.

Uscirà anche un film, e un libro. E il ‘corto’ è iscritto già a tanti festival. Perché ho tantissimo da raccontare. Perché questa è anche una storia di primati. E non solo. I bambini per le strade che sognano, il pallone che rotola incessantemente di piede in piede, la squadra di calcio della città che alla guida ha un italiano per la prima volta nella storia, il giorno del derby, la voglia di giocarsi un mondiale, la Palestina con quelle terre stupende, e io: la sola donna che ha avuto accesso a tutto questo. Libertà, amore, gioco, primati, felicità, vita. Metafora bellissima, il calcio.

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