I sovietici, che in realtà volevano conquistare la Polonia, non liberarla, rimasero a guardare di là dal fiume. Né consentirono agli inglesi di usare le loro basi aeree. Ma né gli inglesi, onestamente, insistettero troppo, perché era già il momento di pensare al dopo, ai negoziati, ai nuovi assetti internazionali: e Stalin era indispensabile. Era – era il male minore.

Varsavia
Foto: Francesca Borri. Uno dei pochi pezzi di muro rimasti integri

Giro per Varsavia, e sono dentro Aleppo. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’85 percento della città fu distrutto. Ma soprattutto, il 1 agosto 1944 i polacchi, sotto occupazione nazista da cinque anni, tentarono un’insurrezione che in 63 giorni falciò via 200mila civili. Oltre 3mila al giorno. Oltre cento l’ora, due al minuto. E’ qui Aleppo, in queste strade in cui non c’è polacco che non ti indichi un angolo in cui è morto un padre, un amico, non c’è angolo che non sia una tomba – qui, tra questi vecchi muri traforati di proiettili: e non fosse altro perché le armi conservate nel Museo dell’Insurrezione, fucili dall’impugnatura di legno, mortai artigianali, razzi di ruggine, sono le stesse dei ribelli siriani, un secolo dopo, maglietta e infradito e scatolette di tonno convertite in granate. Le esecuzioni, la fame le epidemie, le file di croci nei giardini, queste teste impolverate incastonate tra le macerie, è qui Aleppo, in ogni foto: e nella convinzione, soprattutto, che sarebbe presto arrivato il sostegno degli alleati. Che il mondo sarebbe intervenuto.

Avrebbe attraversato il fiume.

Perché erano lì, gli alleati. A pochi metri.

I tedeschi continuarono a bombardare anche dopo la resa. Varsavia non aveva valore strategico, per Hitler: aveva valore di monito. L’ordine fu di raderla al suolo.

Che tutti sappiano cosa accade a chi si oppone. Tutti. A Berlino, a Roma. Ad Amsterdam.

A Homs e Damasco.

Sono strane le guerre. Così diverse, eppure si somigliano tutte.

La stampa di sinistra, schierata con i sovietici, sosteneva che gli insorti non rappresentavano davvero la popolazione. Che erano manovrati dall’esterno. E i polacchi furono lasciati soli. “E ora che si sono ribellati a Hitler, che hanno fatto quello che chiedevate loro di fare, non li aiutate“, scrisse George Orwell. E dite di tutto, per non dire semplicemente che siete con Stalin.

La vigliaccheria, la disonestà di questi anni, scrisse, vi marchierà a vita.

Un secolo dopo, Varsavia è stata ricostruita centimetro a centimetro, planimetrie, foto alla mano. Identica a prima. E ha quest’aria placida, adesso, raccolta: è bellissima, con questa piazza centrale, i caffè, i ciottoli, le botteghe di una volta, e i turisti che guardano le finestre, gli stemmi, le decorazioni, impeccabili, le lanterne in ferro battuto, tutto che è esattamente come prima, e – e tu che guardi i colori, invece. Quando un amico ti dice: un giorno camminerai per Aleppo come ora per Varsavia: ti dice: le guerre non durano per sempre – e tu invece guardi gli intonaci: questo giallo, questo verde, questo blu senza un’incrinatura, così perfetti: così nuovi: così senza età, senza tempo, senza storia, non puoi non notarlo, tu che vieni dalle macerie, tu che sai che non esiste ritorno: non puoi non notarla, non sentirla, tra le strade, questa vita che hai perso, e che nessuno potrà mai ricostruire, in questa città, adesso, così bella, e così poggiata sul nulla, questa città che è inutile: è ormai un’altra città. E non è quella in cui sei, mentre gli amici ti parlano, comprano un cappello, una conchiglia, dei gemelli d’ambra: vivono, e tu, invece, sei altrove – perché sono strane le guerre, e feroci: non durano per sempre: e però non finiscono mai.

E ti inseguono, ti perseguitano, adesso che per quanto possa essere perfettamente ricostruita, nessuna strada porterà mai più a te, alla tua vita. Adesso che incroci un ragazzo uguale a Jim, è alto, magro, con quei ray-ban a goccia, e di istinto ti fermi: di istinto stai per salutarlo, mentre cammini per questo parco, e c’è un’altalena, gialla, un’altalena uguale a quella di Bustan al-Qasr, quella che dondola su una fossa comune, sull’erba appena smossa, conficcati nel terreno, una giostra a molla, un braccio tranciato – e ti giri, di istinto, perché c’è un cecchino, lì a destra, nella sede della televisione, mentre a cena, stasera, suonano la stessa musica di una sera insieme a Kasim, una fisarmonica, un violino, un violoncello, e in una vetrina, vendono lo stesso gioco che Abdelkader regalò a un ragazzino, un gioco di legno, ha gli stessi colori, come questo è lo stesso tè verde della tua ultima volta con Abu Maryam, mentre cammini, cammini per Varsavia, e sai che un giorno, certo, questa guerra finirà, e camminerai per Aleppo, e Aleppo sarà bellissima, e niente esploderà, sarà impeccabile, ricostruita centimetro a centimetro – è la prima cosa che ci dicemmo, in fondo, con Abdallah: quando finirà: grigliata di pesce e vino bianco.

Mi insegni a guidare la jeep, quando finirà.

E io a guidare la vespa.

Perché tutto questo, no?, non durerà per sempre.

Abdallah, Abdallah al-Yassin, è morto il 2 marzo 2013.

Abu Maryam è morto il 16 aprile 2014.

Abdelkader al-Saleh il 17 novembre 2013

Kasim Haji Kasim il 7 gennaio 2014

Jim Foley il 19 agosto 2014.

L’unico che è ancora saldamente vivo, di questi miei anni in Siria, è Assad.

In questa Siria che per caso, ormai, si chiama Siria come quella in cui ho abitato, questa Siria in cui nessuna strada porterà mai più a me.

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