Io non ho ancora mai visto il corpo di un defunto. Il Caso fino a oggi è stato gentile: mi ha risparmiato di dover assistere agli ultimi istanti di vita di qualcuno. Persone care, in certi casi carissime, sono morte o si sono suicidate intorno a me. Ma io, per una mera questione di Caso, non ero mai allo stesso tempo nello stesso loro posto. E quando sono arrivato al mio appuntamento con la morte altrui, qualcuno si era preso carico di accomodare il corpo. Dentro una bara. Sotto un velo. Io ho solo scrutato da pochi metri. Pochi metri di distanza, sufficienti per prendere atto della fine di un percorso, di una storia e di un sorriso, ma non così vicino da poter registrare i dettagli di quel corpo. Il colore della pelle, l’odore diverso, l’assenza di un respiro. Una forma di rispetto, la mia, e senza dubbio anche di paura.

Ecco perché se devo immaginare la morte di 900 uomini, donne, bambini tutte insieme, la mia mente non può fare altro che richiamare immagini in bianco e nero di documentari storici. Fosse comuni, di solito di stampo nazista. Fotogrammi a colori dalla guerra del Vietnam. I campi di sterminio serbi della metà degli anni Novanta. Immagini viste su YouTube o in televisione: lapidazioni di donne nord-africane o medio-orientali colpevoli di aver parlato, o di omosessuali colpevoli di aver amato. La morte, soprattutto di un ragazzo giovane, che sia causata da un banale incidente di motorino o da una epica tragedia del mare, dovrebbe far sorgere anche negli estranei un senso di empatia e di rispetto. A me questo succede. Ecco perché pochi giorni fa avevo pubblicato sul mio muro di Facebook la foto del pischello romano Luca Liberti, 18enne a me sconosciuto, morto schiacciato da un bus in una piazza del mio quartiere per colpa di chi ha parcheggiato in divieto di sosta: una forma di empatia, di lutto, di profondo senso di sconforto.

900 corpi sulla superficie del mare, o affogate sul fondo sono un’immagine più difficile da pitturare. In modo infantile, viene alla mente qualche passaggio del film Titanic. Coincidenza temporale: la notte fra il 14 e 15 aprile 1912 è quando il transatlantico britannico impattò contro un iceberg. L’affondamento avvenne nelle prime ore del 15 aprile: 1.518 morti su 2.223 passeggeri. 103 anni più tardi rispetto al Titanic, sembra siano affogate in una sola notte 950 persone, ma il conteggio non può che essere approssimativo. Fra il 2014 e i primi 4 mesi del 2015, a sud di Lampedusa è come se fossero affondati quasi tre transatlantici Titanic. “Quante altre persone devono morire prima che i governi europei si rendano conto che affidarsi a un mosaico di operazioni improvvisate di ricerca e aiuto non è abbastanza?” si chiede Gauri Van Guilk, responsabile per Amnesty International della sezione Europa e Asia. Lascio però la polemica politica a chi può farla con maggiore voce in capitolo della mia.

Io qui voglio parlare di coloro che giubilano per la morte di centinaia di esseri umani. Anche follower di questo giornale. Italiani e non italiani: noi siamo al corrente, disgustati, solo degli episodi di casa nostra, ma in Inghilterra è nata una petizione già forte di 180mila firme per licenziare l’opinionista Katie Hopkins, responsabile di avere chiamato i migranti “scarafaggi” sostenendo: “Non m’importa se dei migranti muoiono”.

Un mio amico che vive a Milano, Adriano, ha giustamente osservato: “Leggo alcuni commenti di gente che gioisce per la morte di centinaia di migranti in mare, e quasi tutti sono di sollievo per il risparmio di soldi che ci sarà per non doverli accogliere. In generale quasi tutti coloro che straparlano in maniera becera contro questi sventurati, sottolineano l’aspetto economico. Questo essere così gretti, prima i soldi propri della vita degli altri, me li rende ancora più spregevoli, direi vomitevoli. E gratta gratta viene fuori che la tanto decantata etica del lavoro di coloro che si riconoscono nella Lega, non è altro che una vile e bassa avidità di soldi.” Io non ne faccio una questione politica, anche se so che l’osservazione di Adriano è quasi sempre corretta: se gioisci per la sofferenza o la morte di altri esseri umani, specie se tanto più sfortunati di te, sei ‘non nobile’, a prescindere da quale partito voti.

Allora lasciamo che a rispondere ai ‘non nobili’ siano i migranti. Come Awas Ahmed, rifugiato somalo intervistato da Servir, mensile del Centro Astalli (e riprodotto da Civico Lab):

A chi chiede: “Non era meglio rimanere a casa piuttosto che morire in mare?”, rispondo: “Non siamo stupidi, né pazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu che sceglieresti? O meglio cosa sceglieresti per i tuoi figli?” A chi domanda: “Cosa speravate di trovare in Europa? Non c’è lavoro per noi figurarsi per gli altri”, rispondo: “Cerchiamo salvezza, futuro, cerchiamo di sopravvivere. Non abbiamo colpe se siamo nati dalla parte sbagliata e soprattutto voi non avete alcun merito di essere nati dalla parte giusta”.

Non solo non abbiamo merito per essere nati in Europa e in Occidente, ma anzi, abbiamo molta più responsabilità. Non sarò certo io ad appellarmi a principii cristiani o religiosi. Io so che abbiamo una responsabilità umanista e di razionalità personale: se volete essere umani, siatelo. E’ un imperativo morale, non un suggerimento. E se proprio non sapete esserlo, abbiate almeno la decenza di tacere.

Articolo Precedente

Immigrazione: la malafede di chi piange gli stranieri morti in mare

next
Articolo Successivo

Festa della Liberazione: per non dimenticare quel mese d’aprile – Prima parte

next