Il Senato non elettivo a qualsiasi costo. Ma anche no. Dopo più di un anno di polemiche, Matteo Renzi cambia idea nella sala d’aspetto di un aeroporto prima di volare negli Stati Uniti. Se la minoranza Pd vuole che la seconda camera sia eletta dai cittadini, insomma bastava dirlo. Quindi: il corteo dal presidente della Repubblica e le barricate; l’approvazione del ddl in Parlamento con le opposizioni fuori dall’Aula; sei mesi di battaglie tra “bene e male” o “tra rottamatori e gufi”; la minoranza Pd che si dimette dalla commissione a Palazzo Madama; lo scontro con il presidente del Senato Pietro Grasso; le direzioni e i voti bulgari in assemblea; Civati che dice che se ne va e poi resta. Quello era prima. Il presidente del Consiglio dice che se proprio vogliono Palazzo Madama eletto dai cittadini, se lo prendano pure.

Eppure non possiamo averlo sognato: c’è stato un tempo in cui Renzi aveva fatto del Senato non elettivo la sua crociata. C’è stato un tempo in cui il segretario del Pd diceva che la non eleggibilità del Senato era il “paletto della riforma” e “l’elemento imprescindibile”. La prima volta che lo ricordiamo aver pronunciato il requiem per Palazzo Madama era il 15 dicembre del 2013. Segretario Pd da poche settimane, forse già tramava la spallata a Enrico Letta, e intanto annunciava quello che sarebbe stato il suo cavallo di battaglia principale: ”Alla prossima legislatura noi non eleggiamo più 315 senatori, perché il Senato non deve più avere una funzione elettiva”. Poi in primavera, quando la discussione era entrata nel vivo, a parlare era stato il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi: “Il testo”, disse il primo marzo 2014, “può essere modificato fermo restando che “l’elemento imprescindibile è che non ci sia l’elezione diretta dei senatori”.

Il primo scontro campale per Renzi era stato con il presidente del Senato il 30 marzo 2014 a poche ore dal Consiglio dei ministri che licenziò il famigerato ddl Boschi: “Il combinato disposto del disegno di legge”, disse Grasso, “con l’Italicum mette a rischio la democrazia”. Colpi dall’alto che però non fecero cambiare di una virgola la posizione di Renzi. Anzi solo 24 ore dopo si presentò in conferenza stampa per annunciare la grande svolta: “Intendiamo superare il bicameralismo perfetto con quattro paletti per il Senato: no a fiducia, no a voto su bilancio, no elezione diretta per i senatori, no indennità”. Punti irrinunciabili e guai a chi li avesse toccati: “Sono molto colpito da questo atteggiamento del presidente Grasso. Io su questa riforma ho messo tutta la mia credibilità”. Il leader Pd vantava il sostegno delle migliori occasioni: “E’ noto da tempo che il presidente Giorgio Napolitano ha espresso la sua convinzione in merito”. No agli “struzzi che mettono la testa sotto la sabbia”, ora “la classe politica rischia insieme ai cittadini”, disse nelle stesse ore a SkyTg24.

Nella crociata renziana contro il Senato elettivo si era messo poi a creare problemi Vannino Chiti con un disegno di legge appoggiato da un gruppo di parlamentari dissidenti. Erano gli albori dello scontro interno al Pd, che poi non è mai andato molto oltre. Così il 22 aprile Maria Elena Boschi “proponeva, ma non pretendeva” di ritirare il ddl che nel frattempo le opposizioni (5 Stelle in prima fila) avevano detto di essere pronte a sostenere. Un invito sottile a fare un passo indietro per “il bene del Paese e dell’intera popolazione”, quasi fosse una scelta solo patriottica, in vista dell’incontro di Renzi con i premier europei: “Se ci presentiamo agli appuntamenti”, diceva a Repubblica la ministra, “avendo approvato la riforma del Senato e del Titolo V, avremo una maggiore credibilità”. E lì il pezzo forte della difesa renziana del Senato non elettivo: “Avevo 15 anni quando l’Ulivo mise, nelle sue tesi, l’idea di un Senato non elettivo, sul modello tedesco. Nessuno gridò allo scandalo”.

Mentre in commissione a Palazzo Madama ci si metteva pure Forza Italia (erano ancora i tempi d’oro del patto del Nazareno quando il soccorso azzurro faceva sognare grandi riforme a Renzi) a chiedere il Senato eletto dai cittadini, anche il vicesegretario Lorenzo Guerini scese in campo in difesa del punto irrinunciabile: “Il Pd non è una caserma”, disse al Mattino il 24 aprile, “e la circolazione delle idee è non solo garantita ma auspicabile. Sul Senato che vogliamo per il futuro c’è un’idea molto chiara, risultato di un percorso avvenuto anche all’interno del partito. Questo l’orizzonte a cui facciamo riferimento. Sono certo che l’impianto reggerà”.

Renzi del resto aveva le idee chiare: una Camera delle Autonomie con rappresentanti di secondo livello è la soluzione imprescindibile. “Dietro l’eleggibilità diretta del Senato”, disse a “In 1\2 ora” il 27 aprile, “c’è la produzione di ceto politico”.  Non ci credevano tutti dentro il partito, tanto che a giugno i dissidenti lasciarono la commissione a Palazzo Madama in aperta polemica. Dettagli sulla strada del cambiamento e che in nome del dopo il presidente del Consiglio si limitò a digerire con fastidio: “Trovo davvero sorprendente che tutte le volte che c’è il tentativo di fare una battaglia in Europa sostenendo le riforme in cambio della flessibilità, uno prende l’aereo e non fa tempo ad atterrare che emerge che c’è parte del suo partito, ancorché minoritaria che riapre discussioni che sembravano chiuse. Il compromesso raggiunto è il migliore possibile”.

Ma quello era solo l’inizio dell’estate di fuoco con Palazzo Madama pronto alle barricate. Così il 30 luglio 2014, a pochi giorni dal primo sì in Senato al ddl Boschi Renzi diceva: “Approveremo tutto in prima lettura, nonostante le urla e gli insulti. Faremo le riforme a ogni costo: non sono il capriccio di un premier autoritario. Ma l’unica strada per far uscire l’Italia dalla conservazione, dalla palude, dalla stagnazione che prima di essere economica rischia di essere concettuale. Io non lo lascio il futuro ai rassegnati”. Seguì l’approvazione del ddl Boschi a Palazzo Madama, poi alla Camera. E in entrambi casi con uno scontro con le opposizioni arrivato allo stremo. Renzi ora a sorpresa cambia tutto per vincolare un appoggio alla legge elettorale e forse salvarsi dai sondaggi sempre più in calo. Resta da capire come farlo tecnicamente e se il gioco dell’oca deve ripartire da zero. Ma il come, ancora una volta, sembra essere un dettaglio.

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