È una delle frontiere della medicina moderna. Agire non direttamente sulla malattia o le sue cause, ma sul sistema immunitario, addestrandolo e potenziandolo con interventi mirati e, il più possibile, personalizzati. Gli esperti definiscono questa innovativa strategia immunoterapia. Inserita di recente dalla rivista Science nell’annuale top ten dei progressi compiuti dalla scienza, ha consentito negli ultimi tempi di raggiungere importanti risultati, soprattutto nella lotta ai tumori. Adesso, uno studio appena pubblicato su Nature – condotto da un team internazionale di ricercatori della Rockefeller University di New York, della Harvard Medical School di Boston e delle Università di Colonia e Friburgo, in Germania – riporta alla luce questo approccio terapeutico anche nel contrasto all’Aids.

“Negli ultimi mesi c’è stato un revival dell’immunoterapia, dopo anni di tentativi frustranti – spiega a ilfattoquotidiano.it Fernando Aiuti, professore Emerito di Immunologia clinica e malattie infettive all’Università La Sapienza di Roma -. Già in passato, l’immunoterapia con anticorpi monoclonali era stata in grado di controllare la replicazione virale in primati infetti, e di prevenire l’infezione da Hiv”. Ora, i ricercatori hanno compiuto ulteriori progressi. Come illustrato su Nature, sono infatti riusciti a dimostrare che una singola infusione con un anticorpo monoclonale, definito “3BNC117”, è in grado di ridurre significativamente per 28 giorni la carica virale dell’Hiv-1 in pazienti infettati dal virus.

“Questo trial clinico di fase 1 (quella mirata a fornire una prima valutazione della sicurezza e tollerabilità di una sostanza, ndr) – sottolinea Aiuti – è il primo risultato positivo nell’uomo ottenuto con un anticorpo monoclonale che si lega al recettore del virus Hiv, la porta di entrata sui linfociti CD4, cellule bersaglio del virus”.

Un risultato che i ricercatori hanno ottenuto utilizzando anticorpi con attività neutralizzante, capaci cioè di annullare l’effetto di un cosiddetto antigene estraneo al corpo o potenzialmente dannoso, e non solo di identificarlo per segnalare ad altri elementi del sistema immunitario che dev’essere distrutto. Gli anticorpi neutralizzanti sono prodotti naturalmente nel 10-30% delle persone con Hiv, ma solo dopo diversi anni dall’inizio dell’infezione, quando ormai il virus ha avuto il tempo di mutare. Proprio l’eventualità che il virus muti, per difendersi dal sistema immunitario, potrebbe rappresentare uno dei possibili limiti di questo approccio terapeutico.

“Il risultato descritto su Nature va preso con cautela – precisa Aiuti -, perché l’effetto è stato dimostrato in persone già infette e solo per 28 giorni, mentre sappiamo che l’infezione è cronica. Del resto – sottolinea lo scienziato italiano -, anche gli stessi autori segnalano l’emergenza di ceppi virali resistenti ed altri sensibili a questa terapia. Ci potrebbe essere, infatti, l’eventualità che il virus Hiv, sotto la pressione dell’anticorpo, riesca a mutare e creare ceppi resistenti, come avviene con i farmaci. Resta, inoltre, da dimostrare – aggiunge Aiuti – il ruolo preventivo di questi anticorpi come arma nella profilassi post-esposizione, la procedura che viene attuata nei casi di persone esposte accidentalmente al virus Hiv, per esempio con uno scambio di siringa infetta o un rapporto sessuale a rischio, entro 24 ore dal possibile contatto”.

Nonostante i limiti ancora da superare, l’immunoterapia, secondo gli autori dello studio, rappresenta tuttavia una nuova strada da esplorare per prevenire e debellare l’infezione da Hiv, facendo letteralmente uscire il virus allo scoperto dai cosiddetti tessuti santuari in cui tende a nascondersi prima di tornare ad agire, anche a distanza di anni. “La possibilità che il virus muti – conclude Aiuti – non diminuisce l’efficacia dell’immunoterapia, almeno come arma aggiuntiva ai tradizionali farmaci antiretrovirali, soprattutto nella prospettiva di eradicare l’infezione”.

L’abstract dello studio su Nature

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