Come è ampiamente noto ormai, quando si tratta di mettere regole alla “libera” operatività di banche e finanziarie, necessaria a limitare certi rischi, loro non ne vogliono sapere, e le loro potentissime lobby hanno fin qui sempre vinto ogni partita nel Congresso, trovando sempre ogni maggioranza necessaria a far desistere chiunque volesse mettere più controlli.

Adesso però ad agitarsi per chiedere a Daniel Tarullo, l’uomo della Federal Reserve preposto alla supervisione delle regole sulle attività finanziarie un intervento utile a limitare qualche rischio sono proprio i due maggiori esponenti americani nel mercato dei derivati finanziari: il colosso bancario Chase Bank e la Black Rock, leader globale negli investimenti e gestioni finanziarie. La loro preoccupazione è dovuta al fatto che, secondo molti operatori del settore, le Clearinghouses, cioè le piattaforme di transito controllo e garanzia delle principali operazioni sui derivati (vedi nota 1) in realtà potrebbero molto presto diventare esse stesse la miccia capace di dare il via alla nuova grande crisi.

Questo perché, come è ormai convinto persino Thomas Hoenig, vice presidente della Federal Deposit Insurance Corp., facendo semplicemente affidamento su queste istituzioni, invece che attivare adeguati filtri, si è finito per concentrare il rischio su poche entità istituzionali (le Clearinghouse) e sarebbe perciò sufficiente il crollo di una di queste per coinvolgere nella crisi un gran numero di banche e avviare quella tremenda reazione a catena già vista nel 2008. Quando una operazione è transitata attraverso una Clearinghouse si ritiene che quella operazione sia sicura e coperta da rischio perché sia le banche che effettuano le transazioni sia le stesse Clearinghouses, garantiscono con specifico capitale accantonato, e in caso estremo anche col proprio capitale sociale, la copertura del rischio.

Ma questo potrebbe diventare il punto di debolezza, e di rottura, se il capitale a disposizione per coprire il rischio diventasse insufficiente.

Benché a seguito della crisi siano state emanate nuove regole che impongono una maggiore capitalizzazione delle banche (poi controllate dai periodici “stress test”) è assai poco probabile che i capitali accantonati a copertura dei rischi derivanti da queste operazioni siano sufficienti a coprire l’intero rischio qualora una reazione a catena si instauri.

Ora, benché siano le stesse maggiori banche a contribuire e detenere il capitale delle Clearinghouses, esse (o perlomeno quelle che ne determinano l’indirizzo) non ritengono che sia necessario incrementare il capitale delle Clearinghouses, perché queste svolgono solo funzioni di controllo sulle operazioni in transito, e non di trading.

Sia come sia, il fatto è che in un mercato dei derivati finanziari che continua ad allargarsi (il solo mercato degli Swaps si calcola che valga qualcosa attorno ai 700 trilioni di dollari, ovvero 700mila miliardi) sembra del tutto ridicola questa diatriba tra le banche e le loro controllate clearinghouse su chi debba accantonare qualche centinaio di milioni in più, col rischio di perderli, solo per far credere che il mercato dei derivati finanziari è sotto controllo.

Palesemente non lo è, ma questa diatriba ci fa almeno capire che la miccia della prossima crisi è già accesa, l’unica cosa ancora ignota e’ quanto sia lunga la miccia.

(1) Clearinghouses per derivati: piattaforme istituzionali per lo di scambio dei derivati finanziari tra le banche. Incluse nella riforma “Dodd-Frank” del 2009 per dare maggiore sicurezza e trasparenza a queste transazioni finanziarie, ma dopo la sconfitta elettorale dei democratici nel 2010, la riforma non ha potuto essere completata.  

Le maggiori Clearinghouse operanti oggi sono CME Group Inc., Intercontinental Exchange Inc. e LCH.Clearnet Group Ltd.

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