Le povere vittime del Tribunale di Milano avranno i funerali di Stato; è il ricordo più solenne che la Nazione può tributare per il magistrato che ha perso la vita, per l’avvocato e per il coimputato dell’assassino che, di li a poco, avrebbe dovuto essere giudicato da un Tribunale penale ed invece diventa simbolo della giustizia del Paese insieme agli operatori della giustizia che lo avrebbero dovuto ritenere idoneo a proseguire la sua vita all’interno del consesso sociale libero.

Ed invece giaceranno tutti accomunati, assieme, sotto la stessa bandiera. Paradossi umani di una tragedia umana. Un magistrato stimato, un giovane avvocato ed un accusato di un reato assai grave sono poi diventati anche i protagonisti involontari di polemiche sulla sicurezza, sui soggetti che devono occuparsi dell’accesso ai varchi del Palazzo di Giustizia, sulla necessità di schierare l’esercito davanti al Palazzo di Giustizia.

Milano, assemblea dell' ANM a Palazzo di Giustizia

Sarebbero anche diventati la rappresentazione metaforica di un presunto clima irrispettoso nei confronti della magistratura. Ripeto, la tragedia ha fatalmente accomunato sotto il Tricolore soggetti che certamente non avrebbero mai pensato di condividere un destino comune da eroi della Patria. Dell’intervento dell’ex magistrato Gherardo Colombo sul presunto brutto clima popolare verso la magistratura come possibile causa dell’accaduto, ritengo possa essere colto come spunto di riflessione ma è necessario andare oltre questa valutazione, che ritengo solo parzialmente capace di esprimere “il movente” che avrebbe armato l’uomo imputato di bancarotta (ammesso e non concesso che si possa individuare una causa unica e determinante per un gesto umano qualsiasi e specialmente per uno di questa portata virulenta).

Chi ha indossato la Toga come il dr. Colombo, peraltro in tempi assai diversi da questi, certamente ricorderà un altro mondo della giustizia, dove i magistrati erano un numero accettabile e gli avvocati anche; dove gli uni e gli altri, avvocati e magistrati, su posizioni contrapposte ed anche con l’asprezza che i rispettivi mestieri richiedono, svolgevano una contesa che però era fortemente intellettuale e, ovviamente, condita anche da elementi umani quali l’amicizia, l’inimicizia ma, comunque, riconoscendo nell’altro un contendente leale e meritevole di essere empatia.

E ciò non perché in epoche diverse si vivesse in una realtà fiabesca, immersi in una giustizia deamicisiana in cui la lealtà e l’empatia fossero naturalmente alla base di questo microcosmo sociale rappresentato dagli operatori della giustizia e dunque vi fossero valori etici più forti rispetto ad oggi. La verità è che la lealtà, l’empatia, il riconoscere nell’altro un soggetto con cui svolgere un percorso di vita professionale sono stati mentali che possono sorgere solamente se si condivide “la buona o la cattiva sorte” di un viaggio (nel caso di specie la prospettiva di vivere una professione a stretto contatto per più della metà della propria vita biologica) in cui il fondamento è rappresentato dal “conoscersi”.

Oggi gli operatori del diritto vivono ancora sotto quel medesimo tetto, che è il Palazzo di Giustizia, ma gli avvocati non si conoscono tra loro, i magistrati neanche e dunque ancor meno c’è empatia tra i diversi ambiti, avvocatura e magistratura. Per chi non ha dimestichezza con la “vita di Palazzo” e specialmente non svolge la professione forense tutto questo può apparire una inutile digressione sociologica ma così non è, almeno io credo che non lo sia.

Specialmente l’avvocato si trova a gestire gli aspetti giuridici della vicenda processuale del proprio assistito ma, quasi sempre, il ruolo tecnico si interseca con il dramma umano. Che è tale non solo nei casi penali ma anche nelle cause civilistiche, basti pensare al diritto di famiglia, al diritto fallimentare (da cui ha trovato scaturigine il plurimo omicidio di Milano) sino al diritto successorio. L’avvocato deve poter trasmettere al cliente il rispetto per la Giustizia ma anche la stima per i colleghi patrocinatori della parte avversa o per il Pubblico Ministero che certamente è un contraddittore ma con cui si deve o si dovrebbe anche poter “parlare del proprio assistito”.

L’assenza di questo clima fa percepire il sistema giustizia alla parte coinvolta nella causa penale o civile (cioè colui che viene giudicato cioè il cliente dell’avvocato) come un qualcosa di scollato dalla sua (del giudicando) realtà personale, un gioco altrui in cui però neppure i protagonisti (avvocati e magistrati) paiono sapere bene quale ruolo svolgere, se non quello imposto dal codice.

Gli avvocati non si capiscono, i magistrati non si conoscono, gli uni e gli altri portano avanti istanze che possono apparire come mere richieste strumentali per “fare il proprio gioco”, un gioco senza una reale prospettiva (umana) se non quella della pura esecuzione di un agire da mestieranti. Il tragico gesto omicidiario pare smascherare dunque una condizione di ulta-kafkiana impotenza della “parte” processuale verso “il sistema” che, andando oltre la reciproca dissociazione tra il mondo della giustizia e quello dell’accusato, approda in chiave 2.0 ad una totale assenza empatica anche tra gli attori della scena a cui il diretto interessato si trova ad assistere, solo ed impotente. Lasciando a costui lo spazio per il gesto tragico. Quel medesimo gesto che, paradossalmente, ricrea tra mondi con prospettive antitetiche il comune destino, impensabile ma anche inaccettabile, almeno per taluni di loro, di condividere la medesima “gloria nazionale” attraverso il funerale di Stato.

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