Oltre che un asso della musica contemporanea, Steven Wilson è l’ospite radiofonico che ogni speaker vorrebbe avere: semplice, diretto, mai banale nelle risposte è, alla stessa maniera, una miniera di conoscenze e idee che è un piacere poter esplorare da vicino. Martedì 31 Marzo, in occasione della sua data romana al Teatro Sistina ho avuto il piacere di intervistarlo in diretta su Radio Rock, che per prima scoprì la musica dei Porcupine Tree in Italia e la cui storia è legata a doppio mandata a quella del musicista inglese. Per ragioni ovvie la diretta radiofonica comporta per definizione l’esigenza di una sintesi che ho voluto, trasferendo il contenuto delle sue risposte, saltare a piè pari condividendo stavolta con voi lettori del mio blog su ilfattoquotidiano.it il succo (stavolta letterale) di questa bellissima chiacchierata.

La prima volta che sei venuto in Italia è stato per la tua musica o eri già stato nel nostro paese? 

S – Intendi.. suonando? Credo sia stata la mia prima volta in Italia, sì. Siamo venuti qui nel ’95, mi pare. Voi della radio promuovevate i nostri concerti e fu una cosa stupefacente se pensi che suonavamo per tipo dieci persone, a Londra; non eravamo abituati ad averne davanti centinaia.

– Cos’è cambiato nella tua vita da allora? 

S – Che vendiamo un sacco di dischi dappertutto, adesso! No, ovviamente c’è stato un periodo in cui, gradualmente, abbiamo raggiunto anche altrove lo stesso successo riscosso in Italia, che è una cosa fantastica a parer mio, perché questo ci permette di andare ovunque ed essere ascoltati in tutto il mondo, e lo adoriamo. L’Italia è un paese speciale, ha sicuramente un ruolo significativo nella nostra carriera. Nel tempo abbiamo lavorato sodo, stando costantemente in tour e producendo album di qualità, ed è servito, perché è ciò che ci ha permesso di essere riconosciuti trasversalmente e di suonare per le folle; certo, non folle da stadio, ma non sono molti quelli che possono dire qualcosa del genere. Sai, c’è gente che è famosissima in Europa ed in America è sconosciuta, o che va forte in Giappone ma non è nessuno in Europa, mentre io, e posso dirlo dopo aver suonato per più di vent’anni, so di essere abbastanza apprezzato in tutto il mondo.

– Come sono nate le canzoni che compongono questo nuovo Hand.Cannot.Erase? Il tutto prende spunto da una storia vera: ti è bastato questo?

S – Sì, diciamo che è un po’ più complicato di così, perché per quanto riguarda quest’album parliamo di un “Concept”, il che significa che dietro c’è una sorta di storia non delineata da definire ed una linea narrativa da scrivere prima nella mia testa, dunque posso dire che la musica è direttamente ispirata dalla storia e dalla sua impostazione “moderna”, poiché è ambientata e fa parte dei giorni nostri, in una città del XXI secolo; è questo che le da un suono particolare, credo, tipico, molto diverso da quello del lavoro precedente, che era un album più vecchia maniera, con sonorità anni ’70. Questo, per la storia che conteneva, mi suonava come molto più contemporaneo, quasi “Industrial”, è da questo che parte tutto il resto, la storia è fondamentale per quella che è la fase iniziale del processo creativo. Si tratta di delineare l’intero viaggio musicale, e sono io che ne ho il controllo, che so esattamente come voglio che suonino la batteria ed il basso ancora prima che lavori con la band, poi è ovvio che ognuno proponga qualcosa, delle idee, ma dev’essere tutto “completo”.

Come accennavo prima questo Hand. Cannot. Erase trae ispirazione da un fatto di cronaca nera andato in scena a Londra, di cui non abbiamo letto o ascoltato nulla qui in Italia. Vorrei fossi tu a raccontarcelo nel dettaglio cercando di capire cos’è, su tutto, che più ti ha colpito. 

S – L’ispirazione mi è venuta dalla vita vera, da un fatto di circa dieci anni fa, quando una donna venne ritrovata morta nel proprio appartamento a nord di Londra, e ci vollero due anni prima che il suo corpo fosse ritrovato. Ora, gia di per sé il fatto è fuori dall’ordinario, ma ciò che rende la vicenda ancora più scioccante è che non stiamo parlando di una vecchietta povera e sola, ma di una giovane donna popolare e di bell’aspetto, e per non si sa quale ragione nessuno dei suoi amici o familiari ha avuto sue notizie per più di due anni, è semplicemente scomparsa dalla faccia della terra. Se da una lato ho trovato la notizia “straordinaria”, non mi capacito di come sia potuto accadere, soprattutto in una città popolata come Londra e nel XXI secolo, di come sia facile sparire, letteralmente cancellarsi nell’epoca di internet e dei social, del progresso tecnologico e tutto il resto. Così lei, questa ragazza, è diventata il punto di partenza e l’ispirazione del mio personaggio, che è appunto quello di una giovane donna che va in città ed a tutti gli effetti “cancella se stessa”.

– Come è possibile secondo te che una cosa del genere venga a verificarsi? 

S – Penso che quando si vive in una grande città come Londra, New York o una qualsiasi metropoli, si crei una combinazione: quella fra la paura – paura che il tuo vicino possa essere un terrorista, un pedofilo, o penso alla paura di essere rapinato o violentato, specialmente quando sei una donna – e la confusione che deriva dalla frenesia della vita moderna, la velocità, il caos, il rumore… Questo tipo di energia che arriva costantemente a te, un mix, e credo che alcuni, istintivamente, preferiscano la solitudine… Credo riguardi in fondo ognuno di noi: tutti hanno provato almeno una volta questo tipo di sentimento, della serie “sai che c’è, potrei andare al bar con gli amici, potrei andare ad un concerto, ma preferisco stare a casa a guardare un dvd”. Si, quando convivi con questo senso d’oppressione, in queste metropoli tremendamente rumorose, non ti è poi molto difficile capire come qualcuno possa sentirsi così, e parlo per esperienza. Ho vissuto a Londra per 15 anni e non ho mai conosciuto il mio vicino. Non ho mai saputo che lavoro facesse, neppure il suo nome, e parlo di persone che vivono una accanto all’altra per anni ed anni, e per me è stato così finché non mi sono trasferito, neanche lontano, a circa venti miglia a nord dalla città, dove dopo una settimana sapevo il nome del postino e conoscevo chiunque nella via in cui abitavo; dunque credo davvero sia una peculiarità delle grandi città.

– Mi stai dicendo che i tuoi vicini di casa non sapevano che tu fossi “Steven Wilson”? 

S – No, non hanno mai avuto grande interesse di sapere chi fossi ma ad esser sincero non ne avevo neanch’io nei loro confronti! Penso a quello che è successo a Parigi con Charlie Hebdo. Quei ragazzi avevano dei vicini, vivevano accanto ad altre persone mentre progettavano quest’azione tremenda, e nessuno sapeva niente, anzi, per tutti erano “brave persone”… Semplicemente, non puoi sapere veramente chi sia la persona che ti vive affianco e quello che fa nella vita, e più è grande la città, maggiore è la desolazione che ci circonda.

– Ho letto altrove che per te dover dare un nome ad un album è un “male necessario”: volevo sapere perché e sopratutto come mai alla fine hai optato per Hand. Cannot. Erase

S – E’ complicato. La ragione per cui dico che a volte non amo dare il titolo ad un album è che questo in un certo modo lo “definisce” al pubblico, crea un’aspettativa riguardo il suo contenuto. Ora, questo album riguarda molte cose: come detto parla di una giovane donna che “si perde” nella grande città, dunque avrei probabilmente potuto chiamarlo “La solitudine del vivere in città”, ma in realtà è molto di più…riguarda molto altro: internet e come influenzi il modo in cui viviamo, riguarda la confusione, la solitudine, l’isolamento, i rimorsi… Dunque come puoi dare il titolo ad un album che contiene al suo interno tutto questo? Penso che il miglior compromesso per me sia caratterizzarlo un po’ come si fa come con una poesia/qualcosa di poetico, in modo che suoni in un certo modo, ma senza rivelare al pubblico ciò che riguarda in tutti i suoi aspetti, in modo che ognuno, ascoltandolo, possa dargli una sua personale interpretazione. Ed è per questo che non vi dirò cosa significa! Posso dirvi cosa significa per me, ma mi piace che poi ognuno lo legga a modo suo, questo è il senso.

– Più di qualcuno mi chiedeva se ti fossi fortemente ispirato a Kate Bush per questo disco..

S – Beh, è tutta la vita che sono ispirato da Kate Bush, dunque in questo senso si. Ma, nello specifico, c’è una cosa in questo album per cui mi ispiro a lei, che è l’unica artista che mi venga in mente sia riuscita ad utlizzare con successo un coro di bambini (maschi) nell’ambito del panorama musicale rock, che è un qualcosa che non ti aspetti di ascoltare. C’è appunto un pezzo, “All The Love”, contenuto nel suo “The Dreaming” in cui utilizza questo suono, che è probabilmente il suono <<più non-rock’n roll>> che si possa immaginare, ma io l’ho amato, e per la prima volta in quest’album sono riuscito a lavorare con questo tipo di cori ed assoli, (nella traccia “Routine”) che creano un effetto così etereo, nostalgico, molto bello…

Da qualche anno ti occupi, praticamente a tempo pieno, di remixare alcuni dischi storici del rock progressive: hai detto, a tal proposito, che questa operazione ha “restituito fiducia a band che, dall’avvento del punk in poi, erano considerate roba d’antiquariato”. Volevo chiederti, premesso che riscoprire canzoni di questo calibro è già di per sè un’operazione nell’operazione, cos’è che aggiungi tu col tuo lavoro? 

S – Sto lavorando con dei nastri multi-track originali, il che significa che ho le tracce di ogni elemento separato dal resto (la batteria, la chitarra, il basso, ecc) ma dato che amo questi album non voglio “interferire”. Non m’interessa cambiare o migliorare questi lavori, non si può “migliorare” grandi album del genere… sai, per me è, facendo un’analogia, come per chi ha restaurato la Cappella Sistina: chi ha voluto “migliorare” quel capolavoro lo ha fatto senza aggiungere nulla, ma facendolo “brillare”. Si tratta di questo, credo esista il modo di dar loro una nuova luce, nell’ottica del XXI secolo, pensando ai nuovi ascoltatori, senza agire in maniera invasiva, e questo è il lavoro che sto facendo, cercando di rimanere fedele il più possibile alla musica originale.

– Vista la premessa di cui sopra ed anche il successo continuo dei tuoi dischi anche ‘da solista’, credi stia prendendo fortemente piede un nuovo interesse per la musica “progressive”?

S – Questa è una domanda cui per me è difficile rispondere, perché non sono veramente sicuro di sapere cosa sia davvero il “Prog”. Sai, non definirei la mia musica come “Prog” quanto piuttosto come “Conceptual Rock”, perché è musica rock che tenta di raccontare storie attraverso i miei album, che non è alla stregua dell’inserire una canzone pop di tre minuti in un album..Qui c’è di mezzo una sorta di narrativa musicale. E’ ancora possibile essere “Prog”? Io non ne sono sicuro. Credo che al giorno d’oggi, chiunque faccia musica si basi su una sorta di “vocabolario musicale” prestabilito, per cui tende a far rientrare un certo tipo di suono in una categoria..Dal momento che le cose stanno così, come fai ad essere “Prog”? Dato che fare prog significa fare qualcosa di totalmente mio, o tuo, avanti…è ovvio che esista un genere che la gente identifichi come “Prog”, ma non sono sicuro di poter dire chi ne faccia parte… I Radiohead sono Prog? I Muse, i Massive Attack? Aphex Twin? Io ti direi di sì, in un certo senso. Se mi chiedi: -“Una band come i Transatlantic è Prog?”- ti rispondo –“No.” Ti dico piuttosto che sono “Old fashioned”. Sai, è difficile rispondere per più di un motivo, ma in sintesi credo che l’ambizione generale, oggi, nel panorama musicale, sia quella di tornare al rock, un tipo di rock più ambizioso, senza distinzione di genere, ed io trovo sia una gran cosa.

– Non esiste quindi una proposta musicale ‘originale’, ‘unica’, secondo te.

S – Non completamente, no. Penso che ogni cosa tragga ispirazione da qualcos’altro, facendo riferimento ad un sistema musicale stabilito; ciò non vuol dire che ciò che fai non abbia o possa avere “personalità”. Come dire, a me piace pensare che la mia musica suoni “solo come me” ed allo stesso tempo che chi l’ascolta possa trovarvi, non so, un qualcosa dei King Crimson, dei Pink Floyd, di Kate Bush o chiunque altro che possa aver avuto influenza sulla mia produzione; alla fine ciò che spero è che la mia musica suoni nient’altro che come quella di Steven Wilson. Oggi crediamo che band come i Beatles o i Led Zeppelin siano assolutamente uniche nel loro genere, ma a ben vedere i primi iniziarono copiando dei dischi di rock americano e gli Zeppelin traendo ispirazione da una blues band di Chicago. Il punto è che lo hanno fatto con uno stile talmente personale (con forte personalità) che oggi li troviamo unici…Ed in effetti è così, ma è sempre stato così, anche pensando a movimenti come il prog che “rubano” dai musicisti classici o dal jazz. Insomma, se pensi che parlando con Robert Fripp mi disse che fu costretto a non ascoltare più la Mahavishnu Orchestra perché stava “copiando troppo”!

– Ti chiedo, per ultimo, visto che molti dei nostri ascoltatori vogliono saperlo: un nuovo album dei Porcupine Tree è un qualcosa che rientra nei tuoi piani prossimi, a breve termine?

S – Per cosa? Perché? Non voglio fare il difficile, sai, ma il mio personale punto di vista è ed è sempre stato che si debba andare avanti, “progredire”. Solo perché ho una band ed un brand di successo alle spalle, non significa che questo mi basti per voler tornare indietro a quello che facevo con loro, o che per me sia ancora interessante come un tempo. Oggi sento di star facendo la musica migliore della mia carriera, e capisco che ci siano persone che continuino a preferire quello che facevo in passato, ma onestamente non è qualcosa che posso dire di tenere in considerazione; come individuo, è importante per me sentire di star evolvendo. Fare un altro album coi PT ora sarebbe un passo indietro. Non sto dicendo che non potrà più accadere, un giorno magari il momento in cui torneremo a fare musica insieme arriverà, ma ora come ora quello che vorrei la gente capisse è che questo è quello che faccio e che il focus della mia carriera rimane su questo. 

P.S. = ringrazio ancora Radio Rock per l’occasione e sopratutto Chiara Tosone per aver tradotto sapientemente il tutto. QUI è possibile riascoltare invece l’intervista in formato integrale così come andata in onda.

Articolo Precedente

Woody Allen, i miei incontri con lui e la sua band

next
Articolo Successivo

L’antica musica mesopotamica: da Anne Draffkorn a Stef Conner

next