Massimo D’Alema non è né pazzo né ubriaco. Il vino prodotto dalla tenuta dell’ex presidente del Consiglio è ottimo, ma ha ben poco a che fare con la sua apparentemente furibonda reazione all’inchiesta sulle presunte tangenti pagate dalla cooperativa Cpl Concordia al sindaco di Ischia Giosi Ferrandino. Basta aver letto qualunque manuale di comunicazione politica per rendersi conto di come gli attacchi continui alla “scandalosa ed offensiva diffusione di notizie e intercettazioni che non hanno alcuna attinenza con le vicende giudiziarie”, conditi da roboanti minacce di querela, facciano invece parte di una lucida operazione di spin. Ovvero di una calcolata strategia di marketing ideata per tentare di distrarre l’opinione pubblica dalla questione centrale della vicenda.  

D’Alema teme che diventino pubblici tutti i nominativi di chi, a partire dal 1999, ha finanziato la fondazione Italianieuropei da lui presieduta. L’elenco, come è noto, è per legge segreto. Casualmente, grazie ad alcune indagini in passato gli elettori hanno saputo che la fondazione, o la sua casa editrice, hanno ricevuto denaro dal bancarottiere Calisto Tanzi, o da imprenditori come Viscardo Paganelli e Pio Piccini, coinvolti in inchieste per tangenti. In questi casi proprio i protagonisti hanno spiegato che i finanziamenti facevano parte di un’operazione di lobby. Si foraggiava la fondazione nella speranza di creare rapporti utili per ottenere appalti e lavoro dalla pubblica amministrazione o da società controllate da enti pubblici. Lo stesso, a ben vedere, è accaduto con la Cpl Concordia. Tanto che per telefono Francesco Simone, il responsabile delle pr della coop, spiega così i 60 mila euro versati al think-tank del leader Maximo: “È molto più utile investire negli Italianieuropei dove D’Alema sta per diventare commissario europeo…”. 

Ovvio, è possibile che non tutti i finanziatori della fondazione abbiano puntato ad avere un tornaconto per i loro affari o per operazioni di lobby ad alto livello (negli organi direttivi di Italianieuropei siedono, tra gli altri, Pier Carlo Padoan, Ignazio Marino, Anna Finocchiaro e Giulio Napolitano, figlio dell’ex capo dello Stato). Ma è altrettanto ovvio che il sospetto non possa essere fugato. Anche per questo, all’interno di Italianieuropei, una volta preso atto che l’operazione di spin di D’Alema ha fin qui ottenuto risultati solo parziali, si sta pensando di cambiare strategia.

Visto che a far cambiare il clima non sono serviti nemmeno due articoli in difesa della riservatezza dei politici pubblicati da Il Mattino e inelegantemente firmati da Massimo Adinolfi, storico collaboratore della rivista della fondazione, una portavoce ha annunciato a La Stampa che si sta valutando il modo con cui rendere pubblici i nominativi “naturalmente nel rispetto della norma e della loro privacy”. Il punto però è che le norme – fatte apposta – non lo permettono, salvo liberatoria degli interessati. E che da 14 mesi la situazione è addirittura peggiorata. La legge che (in teoria) abolisce il finanziamento pubblico ai partiti stabilisce, al contrario di quella vecchia, che sui nomi dei finanziatori delle varie formazioni politiche, esattamente come accade con le fondazioni, cali un velo. Chi versa deve farlo in maniera tracciabile, ha diritto a forti sconti fiscali, ma appellandosi alla privacy può chiedere di restare occulto.

Il sistema delle lobby all’italiana insomma ha vinto (negli Usa è tutto pubblico, o quasi), gli elettori hanno perso. Per ora.

Il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2015

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