“C’è voluto del tempo, ma ce l’abbiamo fatta”. Con una frase che arriva direttamente dal movimento degli afro-americani, negli anni Sessanta, Barack Obama ha salutato l’accordo di Losanna sul nucleare iraniano. Il presidente ha più volte usato l’aggettivo “storico”, per definire l’intesa, che interrompe un periodo di ostilità e sfiducia tra Washington e Teheran durato 36 anni, a partire dalla rivoluzione islamica del 1979. “E’ un’immensa svolta”, spiega Gary Sick, che oggi insegna alla Columbia University e che nel 1979 faceva parte del Consiglio alla Sicurezza Nazionale. Ma è una svolta che parte da una constatazione diffusa a Washington: che l’Iran è ormai una potenza regionale con cui fare i conti e, in alcuni casi, anche allearsi.

“L’Iran ha ambizioni egemoniche”, si è lamentato di recente il principe Saud al-Faisal, ministro degli esteri saudita, in una conversazione con John Kerry. Il segretario di stato americano ha cercato di rassicurarlo sul fatto che gli Stati Uniti non intendono “abbassare la guardia” nei confronti di Teheran, ma l’assicurazione è parsa poco più che una formula di cortesia. In quelle stesse ore a Losanna i diplomatici americani stavano trattando con i loro omologhi iraniani per l’accordo sul nucleare. La preoccupazione dei sauditi per “l’egemonia iraniana” è del resto proprio la ragione per cui gli Stati Uniti hanno alla fine deciso di intraprendere la strada del dialogo. Teheran ha ormai ampi settori di influenza in Yemen, Iraq, Libano. I sauditi possono protestare – e bombardare gli Houthi legati all’Iran in Yemen; Benjamin Netanyahu può lanciare anatemi e parlare del rischio che gli ayatollah rappresentano “per la stessa
esistenza di Israele”. Ma gli Stati Uniti, appunto, non possono non tenerne conto.

L’intesa di Losanna sul nucleare – che un professore di storia militare americana, Andrew Bacevich, definisce uno strumento “per ridefinire l’intero panorama politico in Medio Oriente” – è del resto avvenuto sullo sfondo di una vicenda che ha poco a che fare con la centrale di Natanz e le altre sorgenti nucleari iraniane; una vicenda le cui strade portano all’Iraq e alla guerra che si sta combattendo tra Mosul e Tikrit contro lo Stato Islamico. E’ qui, in Iraq, che una forma di alleanza militare, non detta e sino a qualche tempo fa inimmaginabile, si è stabilita tra Stati Uniti e Iran, spianando la strada all’accordo di Losanna e giustificando le parole di Obama sul fatto che una nuova, “storica” era di rapporti in Medio Oriente può da oggi iniziare.

In Iraq, nella guerra all’Isis, gli Stati Uniti sono infatti diventati progressivamente sempre più dipendenti dall’Iran. Sono state le forze militari iraniane a venire in aiuto delle milizie sciite irachene, lo scorso agosto, per spezzare l’assedio di Amerli, dove da oltre due mesi 20mila turcomanni resistevano all’avanzata dei militanti islamici. Sono stati ancora gli iraniani della Quds Force del generale Suleimani a coordinare le milizie sciite e le truppe regolari irachene nella liberazione della città, e centro petrolifero, di Baiji, nel centro dell’Iraq. E sono stati ancora gli iraniani a guidare la liberazione questa settimana di Tikrit, la città natale di Saddam Hussein. Alcuni siti legati proprio alle Guardie rivoluzionarie iraniane hanno anche – a dimostrazione del ruolo giocato da Teheran – fatto girare una foto del generale Suleimani che beve una tazza di tè su quella che viene definita “la linea del fronte di Tikrit”.

In altre parole, gli iraniani hanno permesso agli Stati Uniti di sviluppare la loro strategia militare in Iraq; hanno dato un contributo fondamentale per arginare le forze dell’Isis, mentre i soldati Usa continuavano nell’addestramento delle forze regolari irachene. Di più, Teheran ha consentito agli americani di impegnarsi in Iraq senza però impiegare direttamente sul terreno i propri militari. Ovviamente, da una parte e dall’altra, ci sono state ripetute smentite di fronte alla sola possibilità di una collaborazione militare. “Non c’è mai stato alcun coordinamento con le milizie sciite”, ha detto di recente una fonte dell’amministrazione americana. Ma il coordinamento, se pure formalmente negato, c’è stato. C’è stato attraverso la mediazione del Comando Centrale dell’esercito iracheno. E c’è stato attraverso l’ascolto delle rispettive comunicazioni sulle frequenze delle radio militari, che ognuna delle due parti sa che
l’altra sta monitorando.

E’ ancora presto per prevedere dove queste prove di apertura condurranno: se a una reale normalizzazione, come dicono alcuni, o a un ritorno agli anni della guerra fredda tra Teheran e Washington. A buttare acqua sul fuoco degli entusiasmi ci ha pensato il ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, che da Losanna ha spiegato che “l’accordo sul nucleare non ha niente a che fare con le relazioni tra Iran e Stati Uniti” e che “le differenze tra i due Paesi restano serie”. Nonostante questo, nonostante timidezze, prudenze, smentite, gli ultimi mesi hanno sicuramente innescato una dinamica diversa, e nuove possibilità. Le ha colte, queste possibilità, proprio l’ufficio del primo ministro iracheno, Haider al-Abadi, che per raccontare quello che sta succedendo in Iraq ha usato un parallelo storico: “Anche durante la Seconda guerra mondiale Paesi con differenti ideologie, priorità e sistemi di governo si allearono per sconfiggere i nazisti”.

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