Ormai si parla della Siria solo quando accade qualcosa di inconsueto, di non abitudinario. E’ diventato consueto che la gente muoia, a decine ogni giorno, a migliaia ogni mese. Questo non interessa più. Come non interessa a una parte, una larga parte, dell’opinione pubblica il destino dei milioni di sfollati interni, oltre 10 milioni, e dei profughi scappati dal paese, ormai 4 milioni. Per risollevare l’attenzione su uno dei drammi umanitari peggiori al mondo, da dopo la Seconda Guerra mondiale, serve l’inconsueto, qualcosa che susciti l’indignazione. Questo è il caso di Houda, la bambina fotografata nel campo profughi di Atma, in Turchia, che alza le mani di fronte all’obbiettivo fotografico scambiandolo per un’arma. Questa foto ha fatto il giro del mondo in una settimana, venendo riproposta e commentata dalle maggiori testate del mondo. Perché? Perché una bambina con le mani in alto, che si arrende a un fotografo, ci trasmette immediatamente quello che la guerra in Siria sta producendo, grazie anche all’immobilismo della comunità internazionale.

Prima che l’indignazione che suscita questa foto scompaia; prima che si ritorni nella consuetudine dei massacri; prima che non si scrivano più articoli sulla Siria, cosi’ da riconfinarci nell’oblio mediatico, adoperiamo l’indignazione: concretizziamola in qualcosa che sia reale e che contribuisca al miglioramento delle condizioni di vita dei bambini siriani.

Qui a Beirut mi sono parsi chiari i bisogni dei bambini siriani. Li vedi di giorno e di notte che si aggirano fra le carreggiate e bussano ai finestrini delle auto chiedono ai conducenti di comprare un fiore o un pacchetto di biscotti. Sono lasciati in balia di tutto. Eppure, nella scala della disgrazia, sono più fortunati dei bambini che vivono all’interno della Siria e che convivono con i bombardamenti, con la morte. Ho ancora impressi gli occhi di Salah, un bambino di 13 anni che ho incontrato di notte davanti al museo nazionale di Beirut mentre tornavo a casa. Appena gli passo davanti si alza dal marciapiede dov’era seduto e mi ferma. “Vuoi una rosa?” mi domanda. “Ma non dovresti essere a cassa è tardi”. “Papà non vuole” risponde serio, con tono fermo. Mi racconta di venire da Aleppo. Suo fratello, di 8-9 anni, è con lui, seduto su un marciapiede che gioca con dei sassolini. Non posso che dirgli di stare attento e di curare il fratello. Quando gli do qualche soldo lui mi porge la rosa. Gli dico che me la darà la prossima volta. Insiste a darmela ora: non vuole la carità,  ha la sua dignità. Lo convinco che la mia non è carità, che passerò la prossima volta a prenderla e che gli ho solo pagato in anticipo. Accetta.

Ogni notte Salah è li, insieme a suo fratello. Ogni giorno e ogni notte le strade di Beirut sono piene di questi bambini che a volte hanno i genitori e a volte sono orfani. In Siria la loro vita sarebbe peggiore, come dimostra il continuo eccidio di bambini. Anche loro meritano la nostra, prolungata, attenzione.

Prima che l’indignazione, lo stupore, scompaia pensiamo a quei bambini che non hanno volto e che mai lo avranno. Sosteniamo, concretamente, tutte quelle organizzazioni che si stanno occupando di loro, dei bambini. Sosteniamole. Penso in particolare a Terre des Hommes e  a Save the Children che hanno attivato diversi progetti per l’infanzia in Libano. Qui c’è bisogno di tutto. Dal supporto psicologico a causa dei danni gravissimi che i bambini, ma anche gli adulti, hanno, ai servizi scolastici e sanitari. Sta a noi materializzare l’indignazione in una coperta calda o una carezza per un bambino.

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