Più che alla morale occhio alle complicazioni
di Elisabetta Ambrosi

Una bufera di critiche, di accuse di scorrettezza politica e di bieco maschilismo si è rovesciata sulla chirurga vascolare Gabrielle McMullin, rea di aver affermato che, per far carriera, le donne devono essere anche disposte anche a qualche richiesta sessuale.

Ma quello che i detrattori della dottoressa australiana non hanno capito è che la sua affermazione non era un auspicio, insomma un ‘dover essere’ (‘opportuno e giusto fare sesso con i capi’) ma una constatazione di fatto: se fai sesso con i capi, fai anche più carriera. Talmente vero da apparire banale, anche se non andrebbero sottovalutati fastidiosi effetti collaterali – proprio sul lavoro – quando la relazione si interrompe. Più interessante allora sarebbe stato però esplorare un altro aspetto del dilemma: posto che una decida di scopare col superiore, scelta libera in un Paese libero, com’è meglio farlo? Con astuto cinismo, come una specie di fastidioso straordinario, o con coinvolgimento sentimentale (accade, siamo umani, oltre al fascino del potere)?

Non sempre è una scelta e normalmente la versione A – distacco completo e obiettivo solo strumentale – è molto rara, perché, nonostante i moralisti la propongano come l’immagine classica della donna avida di carriera che sfrutta qualsiasi mezzo, la realtà è impastata di ambiguità: e dunque di avances affettuose, gratificazioni narcisistiche reciproche, mezzi innamoramenti, a volte persino amore: insomma più spesso il sesso in ufficio appare così.

Invece di gridare allo scandalo, allora, sarebbe meglio restare lucide sulle inevitabili ricadute anche professionali, della fine della storia. Se dunque esiste una vera obiezione all’evitare il letto del capo, non è morale, ma pratica. Non fate sesso col superiore perché a volte – altro che benefici- le complicazioni successive (anche sulla carriera) sono molte di più.

 

A letto con il capo? L’uomo non esiterebbe
di Lia Celi

Ma l’avete visto quanto è bella Gabrielle McMullin, la chirurga australiana secondo cui ogni donna è seduta sulla sua meritocrazia e non lo sa? Una splendida 60 enne tipo Julie Andrews che irradia empowerment e autorevolezza. Il discorso “se il capo ve la chiede dàtegliela, na lavada, na sugada, la par nanca duperada” (non è il motto sull’ultima felpa di Salvini ma un cinico proverbio milanese, “una lavata, un’asciugata e non pare neanche usata”) ce lo saremmo aspettate da un’Olgettina o da una Biancofiore, per chi sa cogliere la sottile differenza.

La dottoressa si riferiva in particolare alle stagiste e citava il caso di una giovane specializzanda che per aver denunciato le avance del suo supervisore ha perso il posto cui aspirava. Stop alla carriera, conclamata quanto rovinosa fama di cagacazzo: vale la pena, o è meglio chiudere gli occhi e pensare al proprio futuro?

La Realpolitik della passera vale ancora, e a parti ribaltate gli uomini non si farebbero scrupolo a barattare una scopata con una promozione, perché badano al sodo e non dubitano che il loro coso resti come nuovo. Ma quando mio figlio è sul tavolo operatorio non voglio dover pensare che la anestesista che gli sta iniettando qualcosa di potenzialmente letale ha ottenuto quel lavoro non perché era la più competente in anestesiologia, ma perché è andata a letto col primario.

Questo non esclude che sia anche competente, ma il dubbio mi induce a diffidare automaticamente di lei e di tutte le donne in ruoli di responsabilità, specie se giovani e belle, e di volere al loro posto dei maschi, che possono far carriera senza puntare sulla libido altrui. Almeno in Australia e nell’Occidente civilizzato. In Italia gli uomini devono puntare su parentele e raccomandazioni. E se fai carriera col sesso almeno devi scopare di tuo, se la fai con gli appoggi strumentalizzi papà ministro e amici di famiglia, che è anche più sporco.

Da il Fatto del Lunedì, 23 Marzo 2015

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