Numeri contrastanti, il ritorno della Bielorussia nella ‘black list’ e un futuro che potrebbe riservare sorprese. Il rapporto di Amnesty International sulla pena di morte fotografa un 2014 a tinte fosche, soprattutto per quanto riguarda l’aumento delle condanne e il contrasto al terrorismo. “Nonostante il passato ci insegni quanto sia inefficace usarla come arma contro questo tipo di minaccia”, afferma il portavoce di Amnesty in Italia, Riccardo Noury. Eppure proprio Egitto e Nigeria, alle prese con conflitti interni e instabilità politica, hanno fatto un massiccio ricorso alla pena di morte per contrastare il fenomeno, contribuendo in maniera significativa all’aumento delle condanne. Lo scorso anno sono state 2446, cifra lievitata del 28 per cento rispetto al 2013. E in netto contrasto con la diminuzione del 22 per cento delle esecuzioni, scese a 607. Un calo importante (-171) ma viziato dall’assenza della Cina, esclusa dal novero dei Paesi tenuti in conto perché Amnesty dal 2009 si rifiuta di pubblicare i dati raccolti sfidando il governo di Pechino a renderli pubblici. “Da un punto di vista geografico in tre continenti su cinque le cose vanno bene. Bielorussia e Stati Uniti, infatti, sono eccezioni nel panorama europeo e delle Americhe – spiega Noury – Il numero di Paesi che ricorrono alla pena di morte è rimasto attorno al 10% della comunità internazionale e negli ultimi cinque anni solo undici stati hanno sempre giustiziato. Uno zoccolo duro resistente ma scalfibile”.

Il primato dell’Iran e i numeri occulti della Cina
Secondo il rapporto stilato da Amnesty al primo posto si piazza l’Iran con 289 esecuzioni riconosciute dalle autorità. “Ma se dovessimo aggiungere quelle non ufficiali il dato si impennerebbe, perché le nostre fonti parlano di almeno altre 454 persone uccise. In totale, più di due al giorno. Un dato preoccupante”. Almeno quanto quello della Cina, dove non esistono cifre ufficiali. Da sei anni infatti la ong non pubblica i dati relativi a Pechino ma stima che nel solo Paese asiatico siano state messe a morte più persone che nel resto del mondo. Numeri sui quali vige il segreto di stato ma che dovrebbero sforare il migliaio di condanne eseguite. Al secondo posto c’è l’Arabia Saudita, dove molte delle almeno 90 esecuzioni sono state pubbliche, e al terzo l’Iraq (61).

Usa: esecuzioni concentrate in 4 stati
Subito dietro gli Stati Uniti con 35 persone giustiziate, quattro in meno del 2013. “I dati sugli States hanno una doppia chiave di lettura. Il decremento non è significativo ma l’89 per cento delle esecuzioni è concentrato in quattro stati: Texas, Oklahoma, Missouri e Florida. E quest’anno la Corte Suprema prenderà in esame i ricorsi sull’uso sperimentale di farmaci. Questo potrebbe portare a una sospensione di massa o a una sentenza che stabilisce la violazione dell’ottavo emendamento da parte di alcuni protocolli usati. A meno che, come nello stato dello Utah, non si voglia tornare al plotone d’esecuzione.

L’ascesa del Pakistan
Lo scatto di Amnesty, essendo focalizzato sul 2014, non mette in risalto la grave situazione del Pakistan che ha fatto un massiccio ricorso alla pena di morte dopo l’attentato alla scuola di Peshawar. Lo scorso dicembre sono state 7 le persone giustiziate ma è un dato destinato a gonfiarsi nei prossimi mesi. “Da gennaio ad oggi sono già quasi 60 le persone mandate a morte per reati connessi al terrorismo – dice Noury – Il Pakistan, assieme a Egitto e Nigeria, è uno di quei Paesi che stanno dando un messaggio sbagliato. Islamabad finirà tra i primi cinque stati del prossimo rapporto”.

Verso la centesima abolizione definitiva
Quest’anno, dopo 24 mesi di stop, tra i Paesi che hanno fatto ricorso al boia, è rientrata la Bielorussia, un’eccezione nel panorama europeo. E nel 2015 tornerà a giustiziare anche l’Indonesia per contrastare i trafficanti di droga. Dovrebbe quindi rimanere stabile – o aumentare – il numero degli Stati (22) che nel 2013 e 2014 hanno ucciso. “Allo stesso tempo però nei prossimi mesi raggiungeremo i 100 stati abolizionisti in via definitiva – conclude Noury – Siamo attualmente a 99, ma in Suriname e Madagascar manca solo l’ufficialità. È un traguardo tanto simbolico quanto importante”.

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