Il buonismo esiste. Non solo come atteggiamento di chi vuole apparire sempre buono più per la finalità narcisistica di ottenere una valutazione positiva di sé da parte del prossimo che per quella di realizzare effettivamente propositi di bontà, tanto ostentati quanto vaghi e lontani. Il buonismo esiste come visione del mondo manichea che, facendo proprio l’assioma rousseauiano per cui l’uomo nasce buono e la società lo corrompe, non ammette che il male possa venire dalle persone, dal “basso”, ma lo colloca, solo e sempre, verso l’“alto” delle istituzioni. È un’inclinazione caratteriale tipica delle “anime belle”, e una strategia degli opportunisti dell’umanitarismo, che ad esse in vario modo simbioticamente si accompagnano.

Probabilmente il buonismo ha attecchito culturalmente in Occidente principalmente come reazione immunitaria rispetto al trauma storico dato dall’eccesso di crudeltà nazista. Se l’eccesso nazista istituiva la mostruosità della disumanizzazione – e quindi l’uccidibilità – di determinate categorie di persone, l’eccesso buonista impone l’umanizzazione coatta di qualsiasi vissuto, fino ad includere quello del pervertito, del maniaco, del mostro, del pazzo criminale. In tal senso il buonismo nasconde un lato oscuro che, paradossalmente, ne fa un nazismo alla rovescia: come il nazismo disumanizzava programmaticamente alcuni umani per ucciderli, il buonismo arriva, nelle sue espressioni più estreme, a umanizzare i disumani che uccidono. Queste forme opposte e complementari di un medesimo delirio tanatopolitico, che consiste nell’usare la morte per la vita, hanno in comune una legittimazione etica della violenza: una – nazista – esplicita e a livello istituzionale, “dall’alto”, l’altra – buonista – implicita e a livello della nuda vita delle persone, “dal basso”.

Un esempio attuale di come il buonismo si traduce in prassi sociale sta nell’imposizione della chiusura degli “ospedali psichiatrici giudiziari” (Opg), e nella loro sostituzione con delle “residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive” (Rems): piccole strutture sprovviste di celle e di altri dispositivi di contenimento. Un procedimento nazionale che riguarda in tutto circa un migliaio d’individui. A questo risultato – presentato come una conquista di civiltà – si è giunti dopo una serie commissioni d’inchiesta e di servizi mediatici che hanno foraggiato l’immaginario nazionale con lo spettacolo della disumanità degli Opg, in cui il povero malato psichiatrico, essere umano debole e indigente, è vittima della crudeltà di un lager, arrivando a iperboli narrative secondo le quali, per «il furto di una pera» si poteva essere considerati socialmente pericolosi e scontare qualche decennio di atroce prigionia.

Intendiamoci, queste vicende di vite disagiate, sadicamente spogliate di qualsiasi tipo di umanità da una forma di spietatezza istituzionale indegna di una società civile, in molti casi sono reali, ma raccontano una verità tanto inaccettabile quanto inaccettabilmente parziale. Qui il buonismo è un paraocchi ideologico che prescrive di vedere, con lo sguardo della pietas, solo quelle deboli umanità, inducendoci a ignorare che lì dentro c’è, stando ai dati, un 66% di esseri (dis)umani, dichiarati dai tribunali socialmente pericolosi; mostri che hanno esercitato follemente violenza sulle vite del loro prossimo: metà per omicidio o tentato omicidio, metà per lesioni e maltrattamenti. Reati gravi o gravissimi che diversi magistrati e medici hanno ritenuto reiterabili, cercando di metterci in guardia, inutilmente. Così il sacrosanto atto di misericordia del togliere dalle sbarre una serie di persone innocue e sfortunate, produce un cono d’ombra dove si nasconde l’errore – e l’orrore – di liberare dalle sbarre una risma di efferati assassini. Ed è demoniaco confondere il disagio con la malvagità: in mezzo a quel 66% d’individui socialmente pericolosi; ci sono degli “Hannibal Lecter” che non sono dei “poveri cristi”, ne sono l’antitesi. Non sarebbe bastato separare i “ladri di pere” dai pazzi assassini? Non sarebbe bastato migliorare il trattamento dietro quelle sbarre? No, dietro lo show di questa chiusura totale ci vogliamo illudere che la malvagità non alberghi in nessun corpo umano, ma solo nelle istituzioni; ci culliamo inconsapevolmente con la romantica giaculatoria dell’“è sempre colpa della società”.

Così seguitiamo inavvertitamente a concimare la nefasta idea dell’umanizzazione del mostro, l’illusione che si possa essere riabilitati, rieducati da qualsiasi crimine, anche il più orrendo, accostando uno che stupra e massacra un bambino a uno che ruba una pera. Inoltre, in questo chimerico egualitarismo redentorio, parificando il mostro al matto e sostituendo la condanna per il reato con la cura, si arriva a un effetto perverso: la prospettiva di essere trattati in modo non coercitivo potrà aprire un fronte di richieste d’infermità mentale come espediente per non scontare la pena in caso di gravi crimini contro la persona. La malattia potrà diventare il viatico per togliere le sbarre dal delitto malvagio. Per qualsiasi criminale violento si aprirà l’opportunità di dichiarare di aver superato il labile confine tra sanità e follia, per rifugiarsi in un luogo confortevole.

Personalmente in ciò vedo la cifra di una società impazzita, che ancora una volta s’illude di poter superare l’eccesso coercitivo dei manicomi con l’eccesso illusorio del pensare di poter abolire la follia con delle leggi. E ricordiamoci che, se (fortunatamente) trent’anni fa la legge 180 ha imposto la chiusura dei manicomi, da allora (sciaguratamente) non sono state concretamente messe in pratica le alternative che ad essi prevedeva. Questo mentre, troppo spesso, i malati psichiatrici gravi di fatto sono stati scaricati sulle famiglie, trasformandole in infernali mini-lager, dove il “matto di casa” assume il ruolo di aguzzino domestico che distrugge quotidianamente l’esistenza dei suoi parenti.

Poi, a ben vedere, anche qui, questo buonismo in versione antipsichiatrica nasconde un muro di assai piccolo-borghese menefreghismo. In fondo, mascherato da un umanesimo progressista all’acqua di rose, c’è del banalissimo e meschino egoismo: “Tanto non capiterà a me!”. Quando, sedotti dalle rappresentazioni sociali di poveri matterelli, acconsentiamo a togliere le sbarre da qualche centinaio di pazzi criminali, assimilando un maniaco assassino a uno che ha rubato una pera, siamo protetti da un muro statistico, da una lotteria alla rovescia: tanto in Italia si tratta di meno di una persona su 100.000, quindi la probabilità di ritrovarci un pazzo criminale sul pianerottolo di casa è remota, perciò, difesi da una distanza di sicurezza, possiamo andare giù, di bontà a piene mani. Grazie a un tale pseudo-umanitarismo, questi mostri, che qualcuno preferisce chiamare “sventurati”, una volta messi di nuovo nella possibilità di farlo, potrebbero tornare ad uccidere gli sventurati, quelli veri, che gli capiteranno a tiro: magari un operatore della struttura che li ospita, qualche passante, o la donna che perseguitavano da anni. Così, uccisi per la seconda volta dalla rappresentazione pietosa e umanizzante che è stata confezionata dei loro folli carnefici, quei bambini torturati e sventrati, quelle ragazze violentate e massacrate, quei deboli seviziati, continueranno a morire nelle prossime vittime di questi folli assassini, nascosti dietro l’iperbole del ladro di pere rinchiuso per decenni dietro le sbarre. Loro complici sono altri individui, i politici che hanno concepito questa mostruosità, e l’esercito della bontà in differita che da loro si è fatto persuadere, appoggiandoli.

Perciò, nel confondere i matti con i mostri, l’ombra nera di questo buonismo ricorda dei tratti del nazismo, perché il nazismo vince quando, in nome della bontà cieca, riesce a fare dell’Occidente un lager, poiché la chimera del bene assoluto diventa incapacità di riconoscere il male, segnandone il trionfo per mimesi. Vince perché non ci accorgiamo che la nostra società impazzita non è più in grado di riconoscere il male, rovesciando la pretesa biopolitica moderna di istituire un confine netto tra i “pazzi” e i “normali” in quella postmoderna dell’assenza assoluta di confine, dell’assenza di differenza, che in questo caso si traduce in indifferenza nei confronti delle azioni commesse dagli squilibrati ai danni di altri. Non a caso oggi questa politica impazzita, mentre toglie le sbarre che separano i maniaci da chi non uccide mosso dalla follia, pretende di mettere dietro le sbarre chi in trattoria ordina un coniglio alla cacciatora.

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