Metti caso che qualcuno voglia fare un confronto. I confronti, si sa, sono sempre odiosi, sarebbe meglio evitarli, anche per non stare male. Però, metti caso che qualche modesto orecchiante di teorie imprenditoriali voglia provare a fare un paragone e accostare quello che fanno i grandi capitani d’impresa italiani con le poche cose di teoria dell’impresa, giusto per vedere se un po’ si assomigliano. Un disastro, un abisso, un heartattack (senza wine: cfr. T. Waits). La storia della vendita della Pirelli a un’azienda di Stato cinese (China Chemical Corporation) non è il primo né sarà l’ultimo caso, in cui ci sorge qualche dubbio sulla conoscenza da parte dei grandi capitani d’industria italiani non dico delle pratiche imprenditoriali dei Paesi più avanzati, ma perfino dei testi più comuni di teoria dell’impresa. Proviamo a fare un rapidissimo confronto.

Teoria dell’imprenditore (liberamente ma fedelmente tratta dagli scritti di alcuni strani personaggi quali David Ricardo, Frank Knight, Ronald Coase, Joseph Schumpeter). L’imprenditore è il motivo, il fattore principale dello sviluppo economico. Perché è lui che innova, che rischia tutti i suoi denari e oltre, il rivoluzionario che cambia le carte in tavola e consente con le sue capacità e le sue conoscenze di creare qualcosa dal nulla. È un soggetto che non è mosso solo dalla sete di guadagno, ma da un sogno, forse dall’amore verso se stesso, più che altro da una pulsione interiore che difficilmente potremo spiegare, tanto è irrazionale. È una persona in temporaneo stato di grazia, con grande senso pratico, nessun utilitarismo di breve periodo, uno capace di generare profitto per sé e guadagni per tutti.

È uno che massimizza gli investimenti, che risparmia fino all’ultimo centesimo, che gira con le pezze nel sedere, niente lussi e macchinoni, perché sa bene che solo mettendo tutti i suoi denari nella sua impresa potrà vincere la concorrenza. È uno abituato a considerare i momenti difficili come normali, a non lamentarsi, a lavorare in silenzio, a dare il buon esempio, perché tutto il suo mondo è la sua azienda, la sua gente e i prodotti che riesce a creare. È uno che fa vivere bene quelli che gli stanno attorno, che partecipano della sua gioia di essere imprenditore. Uno che piuttosto che fallisca la sua azienda preferisce morire. Uno che non si siede mai sugli allori, che sa bene la differenza tra lui (che cambia le regole del gioco) e i semplici managers (che gestiscono l’ordinario), l’abisso che lo separa con gli amministratori di routine, che licenziano o delocalizzano, spostano i fattori senza che il prodotto cambi, senza innovare pur di mantenere costanti i profitti. Uomini come Adriano Olivetti, che non venderebbero mai la propria azienda, non dico ai cinesi, ma nemmeno al proprio cugino.

Prassi dell’imprenditore italiano (liberamente tratta dalla storia imprenditoriale di alcuni capitalisti italiani che poi vendono le proprie aziende agli stranieri). Gli imprenditori italiani generalmente invece hanno il fisso della politica. Sanno che non è alle loro capacità, alla loro volontà di innovare che devono il successo. E si regolano di conseguenza. Cercano di farsi amiche le banche e in genere si indebitano. Ma questo non importa, perché anche i debiti nel nostro Paese sono in genere garantiti dall’assenso politico, non dai buoni bilanci o dai progetti industriali lungimiranti (cfr. Parmalat). Comprano a credito enormi aziende con le stesse garanzie che potrebbe offrire un impiegato comunale con il suo stipendio. Cercano di fare cartelli su prodotti e prezzi, si accordano tra di loro e i loro amici. Cercano di tenere alla larga dai ‘salotti’ che frequentano tutti quelli che hanno idee diverse, controllano gli accessi e non tollerano ‘idealisti’ che abbiano a cuore solo l’efficienza, il merito, le capacità. Anche nella scelta dei managers ovviamente i criteri sono i medesimi.

I risultati dei profitti sono destinati esclusivamente ai ricchi compensi per gli amministratori, alle finanziarie estere, agli investimenti immobiliari, alle barche lussuose, nondimeno alle ‘amanti’ costose e giovani, insomma a tutto fuorché a ciò che servirebbe all’azienda. E poi, ovviamente, sul mercato globale, non sono più in grado né di crescere né di resistere, diventano facile preda del primo compratore disposto ad accollarsi i debiti, purché ovviamente accetti di liquidare i vecchi proprietari con qualche plusvalenza. Per questo le grandi imprese italiane vanno all’estero, non perché i cinesi son cattivi, ma perché gli italiani sono troppo buoni (tre volte).

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Giustamente, voi direte, una cosa è la teoria, un’altra è la pratica. In fondo le università italiane sono all’antica e non insegnano nulla di concreto. Parole Sante! Mai teoria fu così lontana dalla pratica, mai distanza fu maggiore come tra la teoria dell’impresa e la prassi degli ‘imprenditori’ italiani. C’è una risposta razionale? Apparentemente no. Proviamo a trovarne una. Quando Ronald Coase e compose la sua Teoria dell’Impresa, in effetti intendeva riscrivere l’economia della ‘lavagna’ (Blackboard economics). Che qualcuno abbia letto male e inteso ‘lasagna’ per ‘lavagna’? Questo spiegherebbe questa passione, l’attaccamento a una concezione dell’economia come un grande pasticcio, fatto in casa con dentro un po’ di tutto, senza nessuna regola, buono appunto per un bel pranzo, con pochi invitati, tutti amici, una cosa privatissima. Il cibo per un banchetto, allegro e anche un po’ sporcaccione. L’economia della lasagna, (Macaroni Economics), specialità della casa, che molti imprenditori italiani (non tutti per fortuna) continuano a voler praticare.

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