Appena salito al potere in Cecoslovacchia Alexander Dubcek definì il proprio regime “socialismo dal volto umano”, solleticando il punto G politico di quanti misticamente anelavano a coniugare comunismo e democrazia. Agli attuali mandarini cinesi fa difetto la vena poetico-comunicativa con cui estasiare masse e intellettuali organici, tuttavia essi si trovano di fronte a un dilemma angoscioso quanto quello dell’effimera Primavera di Praga: coniugare capitalismo, proprietà privata, libertà individuali e partito unico.

La sessione annuale del Congresso Nazionale del Popolo (il parlamento cinese), terminata il 15 marzo, ha rappresentato un’altra stazione in una via crucis di progetti confusi e indirizzi vaghi, volti a esorcizzare il passaggio epocale piuttosto che ad affrontarlo. Tutti concordano che si è esaurita la spinta propulsiva del modello basato su massicci investimenti infrastrutturali, valuta debole, partito forte e soprattutto manifattura a bassa tecnologia e salari stracciati con cui invadere i mercati mondiali. Ma sulla direzione futura grava una coltre greve come lo smog di Pechino.

Le cifre ufficiali sull’attuale crescita oltre il 7 per cento – che per credibilità iniziano a evocare quelle del Gosplan che preparava i piani quinquennali sovietici – non riescono a mascherare la realtà di una espansione drogata da conglomerati pubblici che dilapidano risorse, sistema finanziario disfunzionale oberato di debiti, città fantasma costruite solo per ottemperare agli obiettivi di crescita, debiti insostenibili delle amministrazioni locali, aziende private cui è negato l’accesso al credito. Per non parlare del magma sociale che ribolle nelle periferie e nelle campagne. Per spiccare l’ulteriore balzo in avanti non basta più l’intermediazione politica, all’interno di un sistema autoritario, tra i gruppi di potere proliferati dentro il comunismo dal volto capitalista. Occorrerebbe una riconversione del regime profonda quanto quella con cui Deng Xiaoping cauterizzò la piaga del maoismo. Invece la leadership che ha preso il potere nel 2013 – fiaccando la disperata resistenza dei nostalgici delle Guardie Rosse – finora ha scelto un gradualismo sterile, facilmente sabotato dai mille interessi che agiscono negli interstizi del potere.

Pervaso da questo zeitgeist. il Parlamento si è focalizzato su obiettivi economici ampiamente prevedibili: un tasso annuale di crescita intorno al 7 per cento annuo, il più basso dal 1999 (i tassi a doppia cifra sono ormai un ricordo), inflazione in leggera caduta al 3 per cento, disoccupazione al 4.5 per cento. A un’analisi superficiale queste cifre dipingerebbero un quadro a tinte rosee. Ma a parte i dubbi sull’accuratezza delle rilevazioni statistiche (su cui pochi mettono il mignolo sul fuoco), in un’economia moderna non contano le quantità fisiche prodotte bensì la qualità. Anzi, predominano aspetti immateriali come l’adeguatezza dei servizi, sia pubblici che privati, il livello di istruzione, il soft power internazionale. In questo ambito la Cina, se si escludono le aree più ricche della costa orientale e le città principali, rimane un paese arretrato. L’obiettivo di lungo periodo della politica economica cinese è pertanto la ristrutturazione di un’economia ossessionata dagli obiettivi quantititavi verso un modello più “occidentale”.

Un cambio in questo senso è già percepibile nei dati degli ultimi anni: la quota dei consumi privati sul Pil sale a discapito di quella degli investimenti. Ma il processo sarà lento e la pressione sociale esercitata da chi ancora non si è seduto alla tavola del benessere, se non per spazzolare le briciole, ossessiona i quadri del partito. Per questo la Banca centrale guadagna tempo abbassando i tassi di interesse, mentre il premier cinese Li Keqiang ha promesso che se l’economia rallentasse il governo ha pronte misure di stimolo, come nel 2008.

Una sfida immediata sarà l’ingresso a pieno titolo della seconda economia mondiale nel sistema finanziario internazionale. Finora le restrizioni ai movimenti di capitale e alla conversione dello yuan hanno eretto una muraglia protezionistica che ha permesso alla Cina di sottrarsi al giudizio degli investitori internazionali e mantenere un ferreo controllo sull’allocazione del risparmio interno. Di questa repressione finanziaria hanno beneficiato le banche pubbliche e gli interessi politico-affaristici che vi ruotano attorno. Spezzare questo circuito avrà costi politici ingenti e farà emergere il segreto di Pulcinella della fragilità finanziaria di un’economia tarata da un rapporto tra debito e Pil che supera il 250 per cento. La chiave per interpretare le evoluzioni e le afflizioni dell’Impero di Mezzo in questo decennio sarà il corto circuito tra autocrazia politica e modernizzazione del tessuto economico prono a legami incestuosi con la burocrazia spesso corrotta.

da Il Fatto Quotidiano del 18 marzo 2015

Articolo Precedente

Jobs Act, nodo coperture. Damiano: “Troppa fretta nei provvedimenti”

next
Articolo Successivo

Poste italiane, utili crollano del 79% sotto il peso di Alitalia e delle lettere

next