Se esistesse un’algebra del malaffare politico, lo scandalo Lupi-Incalza potrebbe essere spiegato da una formula del tipo

Corruzione = 

(Invadenza dello Stato x Inamovibilità della burocrazia)

+ Avidità dei politici + Costi della Politica – Controlli – Trasparenza

– (Severità della pena x probabilità della condanna).

Il valore delle variabili sulla destra però dipende dalla sensibilità dei cittadini in tema di legalità, o specularmente, dal consenso che essi tributano ai corrotti. Che la cancrena della corruzione in Italia sin dagli anni ‘60 sia un’endemica emergenza economica, oltre che morale, dovrebbe essere ormai un fatto incontrovertibile. Invece, nonostante gli arresti a ciclo continuo, esiste una fetta dell’opinione pubblica (con la memoria di un varano) che considera il dilagare della delinquenza nei gangli del potere una mera quisquilia.

Ad esempio i cocoriti della propaganda grillo-berlusco-leghista, che vagheggiano il ritorno alla lira, arruffano le penne appena si osa menzionare la corruzione. Per costoro il trinomio cricca-casta-corruzione è l’etichetta per irridere chi si scandalizza del letamaio e dei liquami in cui sguazzano le istituzioni italiche (come è lecito attendersi dai sodali ed alleati di Berlusconi, Belsito, Bossi, Dell’Utri, Scajola, Cuffaro, Formigoni ecc.).

L’impareggiabile contributo del Club Cervelli Bungalira al dibattito sull’etica pubblica si riassume in cotale augusto ragionamento: la corruzione e il malgoverno erano diffusi anche ai tempi della lira, ma ciò nonostante si viveva tutti da nababbi, svalutando ogni due o tre anni senza troppi patemi. I mercati mondiali ad ogni tracollo della lira erano invasi dai nostri prodotti di punta, tipo la Duna (che nel trip onirico scompaginava le vendite di BMW e Mercedes), le magliette Benetton, i computer Olivetti o i televisori Mivar (giapponesi e coreani ancora tremano al pensiero).

Quindi se la Banca d’Italia fosse affidata agli eredi morali di Craxi e Andreotti, la bacchetta magica della sovranità monetaria sanerebbe infallibilmente tutte le storture ataviche e renderebbe assolutamente compatibili il latrocinio di Stato con lo sviluppo da tigri asiatiche e i redditi lussemburghesi.

Il debito pubblico? Niente timori. Svanirebbe d’incanto: basterebbe ridenominarlo in Bungalire grazie ad una fantomatica lex monetae (segretamente promulgata tra i banchi dei mercati ittici sulle coste adriatiche). I grulli che avevano investito in Bot non si accorgerebbero di essere stati depredati, anzi rilancerebbero la domanda subito dopo aver ottenuto a tassi da usura un prestito dal banco dei pegni, dietro consegna delle lenzuola superstiti.

Insomma per i fini palati bungaliristi gli effetti delle tasse confiscatorie, della malagiustizia, della burocrazia demenziale e della corruzione dilagante sono trascurabili. E in ogni caso svanirebbero con la semplice aggiunta di una mezza dozzina di zeri sulle banconote, alla faccia di chi si ostina a esecrare il trinomio cricca-casta-corruzione. Questa propaganda riesce a far breccia in quel pubblico che assume informazioni dalla televisione in contemporanea alla cottura del sugo o alla stiratura delle mutande, oppure si lascia infarcire di slogan, via internet, l’involucro del proprio analfabetismo economico.

Invece le devastazioni della corruzione sull’economia reale trascendono la mera appropriazione di fondi pubblici. La corruzione è come un gas letale, ma inodore che si diffonde nelle imprese e avvelena l’economia legale. Quando l’ambiente si satura, i manager che fanno carriera sono quelli più spregiudicati, non quelli più capaci. Avanzano quelli che conoscono o tessono le reti di relazioni inconfessabili, non quelli che innovano i prodotti. Prosperano quelli che conoscono i riti ricattatori, non quelli che sanno operare sui mercati internazionali.

Inoltre per restare in sella i faccendieri piazzano ai livelli inferiori mezze tacche fedeli, ancor meglio se incompetenti, senza speranza di trovare un altro lavoro decente, quindi pronte a tutto pur di abbarbicarsi alla greppia. Per questo molte imprese italiane – soprattutto quelle concentrate sul mercato interno e sui rapporti con gli enti pubblici – annoverano nel management mediocri figuri, quasi mai professionisti. In sintesi, ottenere risultati tangibili solo grazie alle tangenti distribuite nei cerchi e cerchietti magici ha determinato l’inaridimento nel sistema economico italiano di energie capaci di reggere la competizione internazionale. E non saranno certo la Bungaliretta, la Patacca Padana o la Piastra Grillina a mutare l’atroce realtà.

A parte qualche eccezione – lodevole ma irrilevante – sinistra, destra, clericali, neofascisti in Italia sono uniti nello stesso disprezzo per la legalità e le regole che considerano alla stregua di una sottocultura aliena. Il ventennio della mezzadria tra berluscoidi, leghisti e sinistra con il caleidoscopio di amnistie, leggi salvaladri, prescrizioni, lungaggini processuali, garantismo da 16 gradi di giudizio ha rappresentato l’apoteosi di  un processo durato 50 anni.

Oggi siamo al punto che per troppe aziende la stecca è considerata imprescindibile perché costituisce l’asse portante dell’unico sistema, grottesco, distorto e inquinato, nel quale sono in grado di agire, mentre in un mercato concorrenziale verrebbero maciullate. In altri termini, nel Belpaese criminali, corrotti e corruttori sono ormai assurti al malemerito ruolo di indispensabile motore dell’economia.

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