Ci si potrebbe chiedere di cosa parli davvero Birdman, il film che quest’anno ha sbancato gli Oscar, una favola tra Hollywood e Broadway che racconta le trepidazioni di un attore hollywoodiano, ex-supereroe, alle prese con l’adattamento e la regia in teatro del famoso libro di Raymon Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore.

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Lo stesso regista, il messicano Alejandro Gonzales Iñàrritu ammette che non sapeva dove stesse andando mentre girava questo capolavoro. Perché Birdman è un capolavoro. Finzione e realtà si sovrappongono a un ritmo sincopato, gli attori recitano il ruolo di attori di teatro e insieme recitano se stessi e lo spettatore sente che la doppia performance di recitare la recita li rende ancora più veri.

Ed è proprio questo di cui parla Birdman in modo confuso, emotivo e totalmente istintivo: della recita della nostra vita, l’apparenza di noi stessi filtrata dallo sguardo degli altri, insomma della nostra ‘reputazione’, quel doppio io che la nostra immagine negli occhi degli altri rifrange intorno a noi, e della confusione che questo nostro doppio provoca in noi, quell’io sociale, quell’apparenza di noi che ci ossessiona tutta la vita, che a volte ci sembra pura illusione e che è invece la parte più profonda di noi stessi.

Riggan Thompson, il protagonista (Michael Keaton) sta cercando una nuova partenza nella sua carriera, vent’anni dopo essere stato Birdman per ben tre volte a Hollywood. Lo troviamo immerso in una ricerca di autenticità, deciso a misurarsi con la ‘vera arte’ in un teatro fatiscente ma prestigioso di Broadway dove la sua fama non è riconosciuta dagli altri attori, in particolare un veterano di Broadway, il competitivo e istrionico Mike (Edward Norton), che gli ruba la scena, gli suggerisce tagli al testo, seduce sua figlia, insomma, cerca di umiliarlo in tutti i modi convinto com’è che la popolarità di Hollywood non sia che la “cugina puttanella del prestigio”, quello vero, che si guadagna sudando sui palchi scalcinati di New York.

Sullo specchio del suo camerino, Riggan ha appeso una citazione: “A thing is a thing and not what is said of that thing”. “Una cosa è una cosa e non quel che si dice di quella cosa”. Come per convincersi che ci sia una distinzione tra realtà e apparenza, tra io vero e io sociale, pubblico, tra noi stessi e la nostra reputazione. E invece non c’è. Il suo doppio io, la voce di Birdman, lo perseguita suggerendogli di credere nell’ipertrofica immagine di sé che il successo da supereroe gli ha incollato addosso. Lo provoca, lo richiama come il canto delle sirene al suo altro io, quello costruito dallo sguardo degli altri. Riggan resiste, combatte e infine cede: non c’è un io vero e un io inautentico. Siamo quello che gli altri dicono che siamo. E basta. Non c’è identità profonda, non esiste un fondo solo nostro di noi stessi, un io reale cui appigliarsi fuori dai mille specchi che ci confondono e rifrangono la nostra immagine. Non esistiamo al di fuori da ciò che si dice di noi.

Così Sam, la figlia ribelle (Emma Stone) lo canzona per la sua vanagloria, per la sua paura di scomparire, di non esistere più, di non essere importante. Figlia di una generazione intossicata dai social media, l’unica esistenza che lei riconosce è quella filtrata da Facebook, Twitter e YouTube, dove un video di un’imbarazzante corsa in mutande davanti teatro dell’ex supereroe catalizza in meno di un’ora più di trecentocinquantamila curiosi.

Chi è Riggan Thompson/Michael Keaton allora? Il supereroe di Hollywood (non dimentichiamo che Michael Keaton fu più di 25 anni fa l’insuperabile Batman di Tim Burton), o l’attore autenticamente appassionato al suo mestiere, che ricevette il primo incoraggiamento da ragazzo, in una performance teatrale all’università, proprio da quel Carver che decide oggi di mettere in scena? Cosa vuole veramente?Tu confondi l’amore con l’ammirazione” gli rimprovera la ex moglie. Ma qual è la differenza? Di cosa parliamo quando parliamo di ammirazione, riconoscimento, di esistere per gli altri? Non parliamo di amore forse? Perché se gli altri non ci vedono, non ci rinviano la nostra immagine, noi semplicemente non esistiamo. Perché l’amore, come l’ammirazione, è essere se stessi attraverso gli altri.

Riggan cerca la verità fino a perdere la ragione. Si perde proprio a poche ore della prima, vagando confuso per le strade di New York, dove un vecchio attore ubriaco gli ricorda, recitando Macbeth, che “la vita è solo un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia sulla scena e poi non si sente più nulla”. Eppure quel perdersi nella ricerca della verità, fino al punto di usare una vera pistola in scena, è il trionfo dell’illusione, del suo io sognato, dell’immagine sulla realtà. Perché, mai come oggi, una cosa non è altro che ciò che si dice di quella cosa. Ed è questa l’intuizione metafisica geniale del regista Iñàrritu: la voce di Birdman che perseguita Riggan ha ragione. Non c’è altra verità che quella proiettata infinitamente dagli specchi sociali. E’ l’unico modo di esistenza che abbiamo. E difatti proprio alla fine il ‘suicidio’ di Riggan è la sua ‘transustanziazione’ da corpo in carne ed ossa a creatura pura e volatile, perfetta resurrezione nel regno vittorioso dell’apparenza.

Esistere è esistere negli occhi degli altri. E’ questo di cui parla Birdman ed è questo di cui parla Carver quando si chiede di cosa parliamo quando parliamo d’amore.

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