Le parole, quali sedimenti di sapienza o fuochi di memoria, hanno smarrito il loro potere evocativo. Si arrendono spesso ad utilizzi, i più improvvidi. Fluttuano nell’etere come fragili vascelli, in balìa dei falsari del senso.

Il caso più eclatante di contraffazione verbale politico-mediatica riguarda il termine riformismo, impiegato a sproposito, per designare la rotta del governo Renzi. Mai dizione, prima d’ora, fu più abusata e costretta ad un ardito slittamento rispetto all’ancoraggio originario, quello della tradizione socialista ortodossa. E’ pur vero che, in questo frangente storico, vige in tv e sui giornali, la retorica polisemica che sfratta le parole da dimore antiche per liberarne le innumerevoli potenzialità espressive. Del resto, il linguaggio è la spia di repentini mutamenti storici e sociali che, talvolta, rovesciano lemmi e simboli, trattenuti, nel recente passato, dal senso comune. Purtuttavia, resistere alle blandizie di un lessico che travisa e deforma la storia del pensiero politico, può metterci al riparo da grossolani fraintendimenti. Non si tratta, per i giornalisti, di riesumare vecchi arnesi del Novecento ma, bensì, di rimettere le cose a posto, sul piano del rigore lessicale.

Qualche esempio. Il presidente del Consiglio, celebrato, in ogni dove, come l’uomo delle riforme, non può giovarsi del titolo di erede di Filippo Turati. Il riformismo e, segnatamente, quello di conio socialista è stellarmente distante dalla cultura che informa l’azione del governo Renzi, che, tutt’alpiù, può dirsi riformatore. Per una serie di ragioni.In primo luogo, perché l’ansia di cambiare l’architettura costituzionale dello Stato (vedi abolizione del Senato come assemblea elettiva e sua trasformazione in succursale dei consigli regionali, con poteri ridotti e competenze vaghe) non rinvia, in alcun modo, all’idea progressiva di società ad ampio spettro di partecipazione democratica cui era improntato l’agire gradualista.Sopravvive la Camera con vista su pigiabottoni nominati dalle premiate fornerie di partito, che non ci sembra il massimo, in tal senso.Parimenti, l’Italicum si configura come una riforma che restringe il perimetro delle opzioni popolari, in materia di scelta elettorale. Nulla di più estraneo allo spirito di protagonismo sociale diffuso che i riformisti doc propugnavano.

Lo strappo più clamoroso rispetto alla traiettoria socialdemocratica è proprio il Jobs Act e la nozione di lavoro che ne sottende l’impianto. L’esatto contrario della critica riformista alle perversioni del capitalismo ed alle storture del mercato, oltre la cui orbita s’intravedevano, addirittura, sistemi altri. Ovviamente, trattasi di dismessa letteratura politica. Ad ogni buon conto, la legge, gabellata dai media come risolutiva della crisi occupazionale, in realtà, riconosce come unico orizzonte l’iperliberismo e le stigmate del totem finanziario. Di più. Eleva a teologia il principio della flessibilità delle mansioni e della competitività aziendale. Oltre. Secondo l’assunto governativo, per creare lavoro occorre sollevare da vincoli le imprese: se assumi ti servo la decontribuzione. Per carità, può essere pure che funzioni ma è presto per dirlo. Occorrerà verificare quanti utilizzeranno, in modo cinicamente “speculativo” questa opportunutà per trasformare contratti già esistenti in contratti a tutele crescenti.Alla faccia della diffusa occupazione.Non solo.L’orientamento dell’esecutivo,in materia di lavoro, esalta la globalizzazione che non è risultata essere il paradigma vincente, sin qui, relativamente alla crescita differenziata che ha prodotto tra Stati con dissimili comportamenti economici. Ma tant’è.

Per non parlare della difesa della scuola pubblica calibrata dalle detrazioni fiscali per chi sceglie le paritarie. Come se non bastassero i munifici versamenti di Stato a vantaggio di queste ultime. Il tema dei diritti civili, poi, intimamente connesso con la laicità dello stato (architrave del sentire riformista) stenta a situarsi nell’agenda di governo. Beninteso, Renzi non ha l’obbligo di iscriversi a scuole di pensiero che non appartengono alla sua biografia politica. Se non fosse che, incidentalmente, è anche il leader del Pd che, sulla carta, vanta ancora il blasone di grande Partito Riformista. I cantori televisivi del nuovo corso non lo dimentichino.

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