La rapina fiscale italiana, lo sappiamo tutti, ha ben pochi rivali al mondo quanto a dimensioni del maltolto: al di là del dato stellare della pressione fiscale, comunque impressionante ma “addomesticato” e indicativo fino a un certo punto (il denominatore del Pil considera anche stime sul mercato sommerso e partite di giro interne al sistema statale come gli stipendi pubblici), il vero problema è rappresentato dal “total tax tate”, la percentuale complessiva di risorse che vengono incamerate dallo Stato rispetto ai profitti commerciali, che in Italia si avvicina minacciosamente al 70% e posiziona il paese il 17° posto a livello mondiale.

Non tutti ricordano, però, che questa vessazione tributaria non è solo scandalosa per entità delle pretese, ma anche per irregolarità delle modalità di riscossione. Lo Stato italiano, oltre a reclamare la gran parte delle risorse economiche prodotte da chi lavora, porta avanti questa pretesa aggirando, ignorando o addirittura palesemente infrangendo le proprie stesse leggi! Mentre in nome della “legalità” il fisco istiga una vera e propria caccia alle streghe contro i nuovi capri espiatori, gli evasori fiscali, è esso stesso il primo tradire questa “legalità”, con violazioni continue della legge 212/2000 (quello “Statuto dei contribuenti” mai applicato e sempre calpestato), con imposizioni retroattive, con estensione e creazione di tributi per decreto e senza passaggi parlamentari, con inversioni continue dell’onere della prova, con immobili messi all’asta per pretese fiscali al di sotto della soglia minima legale, con cartelle pazze e abusi di ogni tipo, con tasse di possesso per pagare feudi televisivi regolarmente privatizzati da un referendum, e così via.

Uno dei più evidenti casi di “fisco illegale”, riguarda una norma che risale addirittura allo Statuto Albertino e che continua a mietere vittime nonostante sia già stata dichiarata illegittima nel 1961: la cosiddetta clausula “Solve et repete”. La bestialità giuridica in questione funziona come una sostanziale presunzione di colpevolezza: il fisco ipotizza arbitrariamente un’irregolarità nel versamento dei tributi (sulla base di supposizioni e di cosiddette “prove induttive”, relative a sballatissimi “Studi di settore” o ad autoreferenziali circolari ministeriali) e ottiene subito quella che è sostanzialmente una preventiva di condanna, un titolo immediatamente esecutivo che consente di agire con la forza sulla proprietà privata del tartassato (conti corrente, veicoli e immobili compresi). Nel caso in cui la vittima di tale esproprio ravvisi la contestazione come irregolare o infondata (scenario che rappresenta la maggior parte dei casi reali, visto che oltre il 55% dei contenziosi finiscono con la constatazione di pretese fiscali in tutto o in parte infondate) può fare ricorso… ma solo dopo aver pagato, attendendo per anni (o decine di anni) la bontà d’animo di un giudice che eventualmente le dia ragione.

Questo esempio lampante di inciviltà fiscale, dicevamo, fu dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale nel 1961, in quanto palesemente contrastante con gli articoli 3, 24 e 113 della costituzione. La clausola contrasta poi oggi con la normativa europea, secondo cui i requisiti della domanda d’ingiunzione di pagamento dovrebbero essere disciplinati dal diritto comunitario, senza possibilità per gli Stati membri di prevedere requisiti aggiuntivi (sentenza della Corte di giustizia europea del 13 dicembre 2012). Ma lo Stato, che fa la morale sulla “legalità”, non conosce il senso di questo termine. Così la clausula del “solve et repete” ha visto un nuovo momento di gloria a partire dal 2011, quando il ministro “criminogeno” Giulio Tremonti impose come immediatamente esecutivi gli avvisi d’accertamento (legge 122/2010).

Ed è proprio un ex-compagno di partito di Tremonti (che però già in tempi non sospetti non risparmiava pesanti critiche al ministro “anti-mercatista” per eccellenza), Andrea Bernaudo, a guidare in questi giorni una giusta battaglia per l’abolizione di questo obbrobrio fiscale, culminata con la presentazione di un ddl al Senato. Il movimento Tea Party appoggia con convinzione e senza riserve l’abolizione del “solve et repete”: non è un passo sufficiente per trasformare in un posto civile l’inferno fiscale italiano, ma è sicuramente un passo necessario.

Articolo Precedente

Usa, tutte promosse nello stress test che salva le banche (ma non i risparmiatori)

next
Articolo Successivo

Crisi e territorio, Coop Costruzioni: l’emblema del fallimento

next