Arrivano le linee guida della riforma Rai, accompagnate dal cortese avviso di Renzi al Parlamento: “Cercate di darvi una smossa a cambiare la Gasparri perché altrimenti fra pochi mesi quella legge consegna la Rai tutta intera alla maggioranza”. Opposizioni avvisate… E veniamo alla rassegna stampa (oggi Sciò Business si fa di servizio). I pareri tendenzialmente più favorevoli alle renziane linee guida vengono dalla industria dell’audiovisivo (vedi su Il Messaggero, Degli Esposti, il papà di Montalbano e Tozzi , il babbo di Ciro, il camorrista di Gomorra) che spera nei mercati internazionali una volta rottamato il “generalismo uguale ma di parte” delle tre Reti (una volta Dc, Psi, Pci, oggi Sinistra, Centro, Destra). Perché (come il benemerito Piano Gubitosi ha avviato con le Testate multiple) quello è il presupposto per ri-pensare radicalmente natura e impiego delle risorse dell’azienda, dirottandole dal presidio dei lotti (con la minuscola) all’investimento in produzione variegata e potente, e dunque capace di scalare i mercati.

Qualche riserva la solleva Aldo Grasso, (editoriale sul Corriere della Sera) lamentando la assenza di indicazioni per gli undici canaletti minori della Rai. Ma l’assenza a noi invece ci conforta perché quella folla macilenta nebulizza risorse che a parere nostro sarebbero da concentrare proprio sui primi tasti del telecomando (come fa, tanto per dire, la veneranda ed esperta Bbc) sempreché l’obiettivo sia di generare qualità (creativa e industriale) piuttosto che erogare finta abbondanza.  Freccero (ancora il Messaggero) è preoccupato dall’ipotesi dell’Amministratore Delegato che lui preferirebbe diluito. Capiamo, ma non condividiamo.

È vero che le fessure lottizzate del vertice hanno finora permesso sorprese di libertà in Rai (e possiamo ben dirlo noi che collaboravamo alla Terza Rete di Guglielmi, nata nella lottizzatissima Rai degli anni ’80). Ma la via maestra è un’altra: che la creatività non sia sopportata in omaggio al pluralismo, ma richiesta perché funzionale allo sviluppo. Il che richiede una rotta e un timoniere assai competente (ha ragione Minoli su La Stampa) e ben saldo, non un re travicello scorticato a più mani. Che, a modo suo, è anche quel che dice Arbore a Il Fatto.

E poi c’è la questione del Duopolio, che viene ricordata da Michele Tito su La Repubblica. Duopolio, per i non addetti ai lavori, vuol dire che la Rai con la sua stazza protegge da terzi incomodi lo spazio di monopolio di Mediaset, senza farle concorrenza perché godendo del finanziamento pubblico le è vietato di trasformare in pubblicità tutti i suoi ascolti. È concepibile, domanda Tito, una nuova Rai senza terminare, alla Schwartzenegger, il perdurante Duopolio e determinare condizioni di effettiva concorrenza? Domanda scomodissima (perché a non volersene fare intrappolare, si tratterebbe davvero di rivoltare l’esistente come un calzino). Ma tant’è, le domande hanno questo di bello: che non si può fare a meno di notare se ricevono risposta. E quale. E con quali conseguenze, politiche e di mercato.

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