Qualche anno fa, quando vivevo a Londra, conobbi in palestra un tunisino di una quarantina d’anni; mi sentì parlare in italiano al telefono e si avvicinò per scambiare due parole. Non che a Londra manchino gli italiani ma al signore, che mi disse di aver girato mezza Europa prima di stabilirsi nel Regno Unito, l’Italia era rimasta nel cuore. E ci teneva a dirlo a qualunque concittadino incontrasse.

Ma scusa, chiedevo, non si sta meglio qui? Tutto funziona, c’è lavoro, ci sono le regole. “Certo amico” diceva “qui c’è il welfare ed il lavoro ma a parte la famiglia di mia moglie (originaria del Bangladesh) e pochi altri, io non ho molti contatti”.

Invece, i suoi mesi in Italia, li aveva trascorsi da irregolare; mi ha detto che all’epoca non aveva documenti, si era arrangiato come poteva e aveva vissuto nei pressi di Napoli. Svolgeva lavoretti manuali, il proprietario di una pompa di benzina lo faceva dormire nel garage sul retro e una signora che abitava nei paraggi, gli portava ogni giorno del pane e del formaggio. Ovviamente parlava solo arabo e francese, quindi è difficile immaginare quali complesse conversazioni su politiche dell’immigrazione e necessità di chiusura delle frontiere possano mai aver intavolato una signora napoletana ed un irregolare tunisino; il solo fatto che conta è che il secondo aveva bisogno d’aiuto e la signora l’aveva aiutato.

Anche il proprietario della pompa di benzina, che non immagino un poliglotto radical-chic, ma un lavoratore con la tuta blu con le mani sempre nere di petrolio raffinato, aveva semplicemente aiutato qualcuno in difficoltà. “Qui in Inghilterra non sarebbe mai successo, mai” diceva, qui mi avrebbero detto “c’è il welfare, perchè dovrei aiutarti io?”.

Chiamatela solidarietà, chiamatelo spirito cristiano (per chi è credente), chiamatelo come volete: noi italiani ci siamo fatti amare anche per questo. Pur con le mille contraddizioni del Paese, la nostra strana etica a targhe alterne ed i piccoli-grandi soprusi quotidiani voglio ancora credere che l’Italia sia quella raccontata da quel Mohammed o Abu qualunque, non quella degli status e dei commenti carichi di odio con cui Salvini arringa il cyberspazio.

Con l’orrenda chiamata alle armi contro gli ospedali che curano i clandestini, ultima delle sue, il Matteo padano scende un altro gradino nel già elevato ranking di decadenza del suo tabloid nazional-popolare su Facebook. Mi chiedo, tuttavia, leggendo quegli status sgrammaticati, privi di logica e di senso: come abbiamo fatto a cadere cosi in basso? Come è stato possibile arrivare, in cinque anni di crisi, e vent’anni senza politica, ad un punto dove un personaggio di peso nazionale arriva a suggerire di sospendere cure ad individui solo perchè privi di documenti? Non so a voi ma un giuramento di Ippocrate nazionalista, a me non piace. Certo l’odio online, nella società passiva-aggressiva (quella che urla e fa foto con l’Ipad, per capirci) è un cavallo vincente: basta spararle, i social fanno il resto.

Dov’è finita l’Italia che molti stranieri adorano, quella solidale e comunitaria? Si è ridotta a seguire un condottiero virtuale che fino all’altro ieri voleva la secessione ed oggi urla “l’Italia agli italiani”?
Salvini, per fortuna, non rappresenta l’Italia come non la rappresentano i commenti disgustosi a margine della sparata: per spegnerli, basta fare logout e spariscono.

E l’Italia che ogni giorno aiuta l’anonimo Mohammed, che questi venga dalla Tunisia dalla Siria o dal quartiere vicino, che abbia o meno il permesso di soggiorno, questa Italia per fortuna non dimentica chi siamo e da dove veniamo.

SALVIMAIO

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