Lunedì scorso si è tenuto alla Camera il quarto ciclo di audizioni avanti la Commissione per i diritti e i doveri relativi ad Internet. Ho seguito la seduta a spizzichi e bocconi e solo oggi ho trovato il tempo per guardarmi il video completo dall’archivio video della Camera. La commissione, fortemente voluta dalla presidente della Camera Laura Boldrini e da Stefano Rodotà, si occupa di quel Bill of Rights che vorrebbe essere da stimolo per la creazione di una carta dei diritti di Internet a livello europeo. Un’iniziativa lodevole, che ha un solo difetto: parte dall’Italia.

Bill of rightsCominciamo dalla fine. Le audizioni si sono chiuse con uno sconsolato Riccardo Luna, presente in qualità di Digital Champion per l’Italia, che si domanda cosa fare per sollecitare una maggiore partecipazione dei cittadini al percorso del Bill of Rights per Internet. I numeri legati all’iniziativa, effettivamente, non sono esaltanti: 10.000 utenti hanno visitato il sito e solo 300 hanno inviato osservazioni e contributi. Per capirci, un’iniziativa simile sulla Net Neutrality negli Usa ne ha raccolti 3 milioni. Normale che Luna e Boldrini si interroghino sulle cause del flop. Cittadini pigri e disinteressati? Comunicazione insufficiente? Linguaggio troppo complesso?

La risposta, per la verità, si legge perfettamente già in Aula. Perché di fronte a un Parlamento e a una società civile che parlano di diritti e futuro, c’è un governo che continua stolidamente a parlare di interessi e di mercato. I cittadini lo hanno capito benissimo ed è impossibile fargli una colpa se non riescono a entusiasmarsi per un percorso che, nella migliore delle ipotesi, rischia di diventare una bella enunciazione di principi. Per capirlo è sufficiente ascoltare le parole di Antonello Giacomelli. Il sottosegretario alle Infrastrutture, dichiarando il suo apprezzamento per l’iniziativa e dichiarandosi “in sintonia” con il percorso, ha approfittato dell’occasione per ribadire la posizione dell’esecutivo sulla banda larga. Come se non lo avessimo capito con il dietro-front fatto dal governo sulla fibra, Giacomelli ha confermato che la speranza di superare il digital divide è una questione che il governo intende lasciare ai privati, con qualche intervento pubblico nelle solite zone svantaggiate. La responsabilità, naturalmente, non è di un governo sdraiato sui desiderata dei creditori di Telecom, ma delle regole europee che legano le mani all’Esecutivo. Insomma: a stendere la fibra lungo la penisola sarà la mano invisibile del mercato, quando (e se) lo troverà conveniente. La colpa (che è sempre di qualcun altro) è al massimo di chi ha privatizzato Telecom.

Il meglio, però, arriva quando interviene la direttrice generale dell’Agenzia per l’Italia digitale Alessandra Poggiani. Le sue posizioni chiariscono abbastanza bene quale sia la visione di Internet e dei diritti digitali nell’ottica di chi dovrebbe guidarci verso lo splendente futuro dell’Italia 2.0. Diritti digitali? Va bene, ma troppe regole potrebbero scoraggiare gli investimenti dei privati. Non è un caso che nel suo intervento la parola più ricorrente è “proprietà privata”. Insomma: chi prende le decisioni ha già deciso. Le dichiarazioni di principio devono rimanere tali e il futuro di Internet in Italia lo decideranno a Piazza Affari. E se gli azionisti decideranno che si può guadagnare di più mantenendo una rete in modalità lumaca in cui i privati possono censurare a piacimento i contenuti sul Web o privilegiare i partner commerciali penalizzando i concorrenti, ci si può solo rassegnare. In attesa dell’Italia 2.0, continuiamo a sperimentare la democrazia 2.0. Ed è piena di bug.

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