Una riserva di caccia. E’ così che le terre ancestrali dei Masai, in Tanzania, si stanno trasformando in un divertimento per ricchi annoiati. In questi giorni sono ripresi gli sfratti delle comunità di pastori, a Liliondo, nel Nord della Tanzania. Nel mese di novembre, sui social network e via mail, sarà capitato a molti di voi di imbattersi in un appello. Nel testo accorato, diffuso in tutto il mondo, gli anziani Masai denunciano il governo tanzaniano, di voler costringere migliaia di persone a lasciare le loro terre. Eppure, in un primo tempo, in molti avevano creduto alla vittoria del popolo Masai.

Come sempre più spesso accade il primo soggetto a voler concedere terre agli stranieri, è lo Stato. La Tanzania, già nel 2013, aveva annunciato la creazione di una nuova area dedicata alla conservazione. Proprio in nome della conservazione lo Stato africano, da anni, ha allungato il suo controllo sulle terre in cui vivono i Masai sfrattandoli dal loro territorio. Di che conservazione si tratta? Di certo non quella della fauna, ma piuttosto di entrate pecuniarie. L’area in questione è quella che collega il Parco Nazionale del Serengeti in Tanzania e il Parco Nazionale dei Masai Mara, in Kenia. Secondo la visione governativa dovrebbe diventare un corridoio privilegiato per il transito degli animali. Di fatto, però, la stessa area, dal 1992, è affittata ad una società che organizza safari di caccia, la Ortelo Business Corporation.

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La compagnia è nelle mani di un uomo d’affari di Dubai. Già nel 2013 i Masai si erano opposti alle disposizioni governative, che rischiavano di aggredire le terre tradizionali, già sotto attacco, per favorire turisti interessati alla fauna selvaggia. La mobilitazione, già allora, aveva portato i suoi frutti perché il progetto governativo si era fermato e il presidente aveva fatto un passo indietro. Nel mese di novembre del 2014, però, la Tanzania è stata accusata nuovamente di voler sfrattare, dal distretto di Loliondo, 40.000 Masai, dediti alla pastorizia, e di voler trasformare la terra ancestrale in una riserva di caccia. Il governo aveva annunciato anche una compensazione. Come ritorno per la popolazione espropriata sarebbero state realizzate opere per lo sviluppo socio-economico. Gli attivisti appartenenti alla popolazione locale avevano capito che l’unico modo per fermare il governo, era mantenere alta l’attenzione sul destino della loro terra. E questo si è tradotto in un nuovo appello, che ha fatto il giro del mondo.

Ci sono riusciti. Il governo ha garantito, ancora una volta, che la terra dei Masai non è in pericolo. E’ stato lo stesso presidente, via twitter, ad assicurarlo. Ma le promesse hanno lasciato spazio ai fatti. A febbraio i ranger del parco nazionale del Serengeti hanno allontanato le famiglie e bruciato le loro abitazioni. Sul suo sito web il magazine The Ecologist ha denunciato che sono tra 2000 e 3000 le persone rimaste senza casa. Molti altri hanno raccontato di un ordine, arrivato dal governo, per lo sfratto immediato delle comunità presenti sull’area. E pensare che gli anziani e gli attivisti, che avevano lanciato l’appello, avevano chiesto a gran voce una garanzia. Volevano documenti scritti che garantissero l’affidamento duraturo, per la gestione di quella terra, ai Masai. In poche parole avevano compreso l’importanza di un’assicurazione in grado di impedire allo Stato di rimangiarsi le promesse, come, in fin dei conti è accaduto. Di nuovo.

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