Ma davvero bisognava attendere l’Eurogruppo per giungere ad una conclusione, nota e palese, sin dal 2012? Il debito greco non è sostenibile per il sistema di quel Paese e la decisione di Mario Draghi di escludere Atene dal Qe ne è solo un’ulteriore conferma. I populismi di vario genere, comprese le minacce (differenti) dei ministri Schaeuble e Varoufakis, non aiutano a calmierare gli animi e soprattutto ad individuare una soluzione praticabile e netta.

Partiamo dai compiti a casa. La Grecia negli ultimi tre anni è stata chiamata a sacrifici inimmaginabili, compiuti solo dal ceto medio e da quello basso, che nel frattempo è scivolato nella povertà. Quanti sono stati i reportage, anche da queste colonne, che hanno dato conto di un tessuto sociale ormai lacerato e sfiduciato? Numerosi. Imu sulla prima casa, tasse finanche sulle auto a metano, costo dei prodotti basilari come pane, latte e pasta proibitivi, tre sforbiciate a stipendi, pensioni e indennità. Il risultato? Non un passo avanti nella direzione delle riforme, con un Paese che dal 2010 ad oggi ha aumentato il proprio debito, fatto pochissimo contro l’evasione fiscale e la corruzione, fatto nulla nella ricerca di nuove strade per produrre Pil. Senza dimenticare che per un trentennio quasi nessuno nella penisola al centro dell’Egeo ha pagato le tasse: omettere questo, sarebbe voler fare cattiva informazione. La Grecia importa di tutto, persino olio e cotone, presenti copiosi in loco. Come mai accanto ad un memorandum di sola spending review non si è pensato a favorire investimenti, nuove fabbriche e quindi nuovi posti di lavoro?

Quanto alla matita blu in mano ai professori di Berlino e Bruxelles, la tesi che sin dall’inizio della crisi ho portato avanti nel mio pamphlet “Greco-eroe d’Europa” è che il memorandum non funziona, semplicemente perché chiude la mega falla del debito con un altro debito, lungo (al netto di interessi e ristrutturazioni) fino al 2050. Non ha senso alcuno (né economico, né finanziario, né politico) insistere nell’”alimentazione e idratazione forzata” verso Atene, dal momento che la bancarotta è irreversibile: un passaggio sottolineato anche dallo stesso Varoufakis in una trasmissione tedesca. Ne si prenda atto.

E allora? Beh, un primo passo, intellettualmente onesto, potrebbe essere quello di raccontare la verità. Berlino la dica tutta su prestiti, interessi e scandali di vario genere accaduti proprio in Grecia negli ultimi quindici anni (oggi, per la cronaca, sono stati rinviati a giudizio in 64 per quella ragione).

Tsipras ammetta di essersi allargato in campagna elettorale: ha promesso la morte della Troika ma Fmi, Ue e Bce saranno ancora ad Atene tra pochi giorni per vidimare gli impegni. Il memorandum, per il 70%, è lo stesso dell’ex premier Samaras (in più c’è la riforma Ert e la soluzione alla crisi umanitaria).

Varoufakis la smetta di insultare i suoi colleghi a giorni alterni, non è questa la direzione di marcia di chi è chiamato a disegnare una via di uscita e continua a professare l’intenzione di voler restare nell’eurozona. Sempre che non sia una strategia mirata, vien da pensare (della serie “ci caccino loro dall’euro”).

E soprattutto, chi ha a cuore il futuro della Grecia, ma anche dell’Europa, la smetta di cercare il titolo ad effetto, l’urlo in prima pagina, indossando partigianamente una casacca o l’altra. Il rischio è che, con i populismi, tanto al nord quanto al sud del Mediterraneo, si smarrisca definitivamente l’ultima possibilità di strutturare una vera unione, mentre si prosegue con la tesi di regole uguali per Paesi diversi. Che ancora non collimano.

Twitter: @FDepalo

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