Agenti dei servizi segreti italiani fecero visita al boss mafioso Francesco Di Carlo mentre era detenuto in Inghilterra per narcotraffico. L’obiettivo? “Mi chiesero se potevano avere un contatto a Palermo“. Di Carlo, negli anni ’70 e ’80 padrino di Altofonte con buone entrature nei servizi e dal ’96 collaboratore di giustizia, mette in fila i ricordi degli anni precedenti alle bombe del ’92-’93 e parla di strani incontri e inquietanti richieste da parte della nostra intelligence a Cosa Nostra. Lo fa come testimone in videoconferenza dal carcere, durante il processo a Milano sulla strage di via Palestro a carico di Filippo Marcello Tutino, che secondo le indagini coordinate dal pm Paolo Storari avrebbe rubato la Fiat Uno che saltò in aria il 27 luglio 1993 davanti al Padiglione d’arte contemporanea uccidendo cinque persone. Per il pentito, la trasferta degli agenti avvenne fra il 1988 e il 1989. Tra gli 007 – racconta – c’era l’allora capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, il “super poliziotto” – morto nel 2002 – messo a capo del pool di investigatori che, all’indomani della strage di via D’Amelio, doveva dare la caccia agli attentatori. Indagini, si scoprirà in seguito, depistate dal falso pentito Vincenzo Scarantino e sulle quali si sta celebrando a Caltanissetta il processo per fare luce sulla morte di Paolo Borsellino e degli uomini della scorta.

Di Carlo collegato con l’aula di Milano racconta al difensore di Tutino, l’avvocato Flavio Sinatra, di aver messo in contatto gli 007 “con l’imprenditore Ignazio Salvo e poi con Salvatore Riina“. Ma non è la prima volta che l’ex boss di Altofonte parla della strana visita ricevuta mentre si trovava dietro le sbarre in Inghilterra. Lo aveva già fatto durante il processo sulla Trattativa a gennaio 2014, nel quale raccontò anche di aver avuto stretti legami con il generale Vito Miceli, iscritto alla P2 e a capo del Servizio segreto della difesa negli anni ’70, e con il generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi. Ai giudici palermitani precisò che gli agenti erano tre: oltre a La Barbera, c’era un certo Giovanni, forse dell’esercito, e una persona inglese. “Giovanni – raccontò in aula il pentito – mi disse che si doveva procedere a fare andare via Falcone da Palermo” perché “stava facendo grossi danni” con le sue indagini. Anche in quella occasione Di Carlo fissò l’incontro a cavallo tra l’88 e l’89, dunque prima del fallito attentato all’Addaura, ma sottolineò che gli 007 “non mi hanno mai parlato di volere uccidere Falcone, ma solo di farlo andare via da Palermo: io a quel punto mandai un biglietto a Salvo Lima, e scrissi che questi amici potevano essere utili a tutti, perché avevano anche promesso di aiutarmi”.

Il boss nell’aula di Milano torna sulla stagione ’92-’93: “Quando ho lasciato Cosa Nostra non si parlava di stragi, era un’associazione un po’ più ‘equilibrata’”. Gli attentati a Falcone e Borsellino e i massacri in Continente – è convinto – vennero “suggeriti da qualcuno”, e avevano l’obiettivo “di destabilizzare il sistema, mandare via Falcone da Palermo e contrastare il regime del 41 bis“. Ma dalla testimonianza di Di Carlo emerge un altro personaggio oscuro di quegli anni: il mafioso Antonino Gioè, che partecipò alla mattanza di Capaci e lasciò una strana lettera in carcere prima di essere ritrovato impiccato. L’ex boss di Altofonte sostiene di essere stato un gancio anche tra lui e altri 007 italiani.

E di Gioè parla anche l’ex estremista di destra vicino ai servizi Paolo Bellini, anche lui ascoltato come teste per la strage di via Palestro in collegamento video dal carcere. “Dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino – dice – incontrai il maresciallo dei carabinieri Roberto Tempesta e chiesi di potermi infiltrare in Cosa Nostra”. Secondo Bellini, il via libera all’operazione arrivò dal generale Mario Mori, imputato nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Davanti ai giudici milanesi Bellini ricorda di aver stretto rapporti con Gioè e parla di un colloquio con lui sul “cambio di strategia” della mafia corleonese negli anni ’90: non bisognava più colpire le istituzioni e i suoi uomini, ma il patrimonio artistico dello Stato. Un passo verso questo cambio di rotta, come hanno spiegato altri collaboratori, consisteva in un attentato alla torre di Pisa. “Gioè mi disse ‘che ne diresti se un giorno scomparisse la torre di Pisa”, ricorda Bellini. “Io gli risposi che avrebbero creato un danno notevole al Paese anche a livello internazionale”.

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