Un testimone del processo Trattativa contattato da un presunto agente dei servizi segreti che gli consiglia di non andare a deporre. Spunta l’ennesimo interrogativo nel processo più delicato degli ultimi anni. E questa volta va in scena direttamente all’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Sul banco dei testimoni monsignor Fabio Fabbri, per anni vice di don Cesare Curioni, il capo dei cappellani delle carceri italiane. Fabbri è stato testimone della gestione del 41 bis ai più alti livelli negli anni delle stragi, puntellate, secondo l’ipotesi accusatoria, dall’interlocuzione tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. Il sacerdote era già stato sentito al processo di primo grado sul mancato arresto di Bernardo Provenzano, che vedeva imputati gli alti ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Mauro Obinu.

Prima di iniziare a rispondere alle domande sulla sua permanenza ai vertici dei cappellani carcerari, però, Fabbri è stato protagonista di un fuori programma. “C’è stata una interferenza sul normale svolgimento del dibattimento” ha denunciato subito il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che rappresenta l’accusa insieme ai pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. Che interferenza? Lo ha raccontato lo stesso Fabbri, davanti al presidente della corte Alfredo Montalto. “Quando sono stato chiamato per deporre al processo, ho pensato di contattare un amico dei servizi segreti per chiedergli se era il caso di venire o meno, visto che avevo già deposto sullo stesso argomento in un altro processo (quello a Mori e Obinu ndr), spendendo 600 euro che non mi furono mai rimborsati”.

Il sacerdote, quindi, ha incredibilmente pensato di rivolgersi non ad un avvocato, ma ad uno 007 per chiedere consiglio. “Lui mi disse che si sarebbe interessato, e in effetti mi pare l’abbia fatto, ma in una maniera un po’ ambigua. Prima mi ha detto: fai una memoria e mandala a Palermo, vedrai che l’audizione sarà spostata. Disse che lui sapeva che il processo sarebbe saltato, poi, invece, mi disse di venire”. Ma perché Fabbri ha deciso di rivolgersi al suo amico 007, invece d’interpellare la corte? E soprattutto chi è quest’oscuro agente dei servizi? “Siccome ieri cominciava la Quaresima e avevo problemi ad allontanarmi da Siena (dove abita ndr), mi sono rivolto a questo amico. È la persona che tanti anni fa mi controllava durante il caso Moro. Si chiama Gino, ma non so se sia il suo vero nome: lo conobbi dopo che il caso Moro fu chiuso”.

Adesso i pm cercheranno di capire chi sia il consigliere di Fabbri, e se davvero appartenga ai servizi segreti. Ma soprattutto: perché ha consigliato al sacerdote di non venire a deporre? Non è la prima volta che Fabbri tira in ballo oscuri personaggi che s’incrociano col caso Moro. Deponendo al processo per il mancato arresto di Provenzano, raccontò per esempio che durante il sequestro dello statista pugliese, Papa Paolo VI “mise in moto le sue pedine, prima per capire chi fossero i sequestratori, e poi per trovare il contatto con le Br. A Castel Gandolfo ho visto una consolle coperta da un drappo azzurro che il Papa sollevò e mi fece vedere: una montagna di dollari, dieci miliardi preparati per il riscatto di Aldo Moro”. Dopo il lungo fuori programma, con la comparsa dell’oscuro Gino sullo sfondo del processo, l’interrogatorio di don Fabbri è tornato al capitolato d’origine: ovvero il suo rapporto con don Cesare Curioni. Nel 1993, l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro chiamò Curioni e Fabbri per individuare il nuovo capo del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) al posto di Nicolò Amato, considerato troppo duro nella gestione del 41 bis.

“Era chiaro che Scalfaro non stimava Amato. Disse che era una primadonna” ha raccontato il sacerdote, ricordando poi l’udienza al Colle nel 1993. “Quando andammo al Quirinale – ha spiegato- ricevemmo dal capo dello Stato l’indicazione di dare una mano al Guardasigilli, Giovanni Conso, per individuare il nuovo direttore generale del Dap. Il ministro era molto agitato, non sapeva come procedere per la sostituzione di Amato. Si mise le mani nei capelli. Io e Curioni manifestammo le nostre perplessità sulla sostituzione di Amato, ma Conso tagliò corto: il presidente ha detto così e così bisogna fare”. Il nome di Adalberto Capriotti, successore di Amato e oggi indagato insieme a Conso per false informazioni ai pm, venne fatto dallo stesso Fabbri. “Si sondò la sua disponibilità e lui accettò. Io feci il suo nome, Conso controllò su un librone e disse che si poteva fare”. Per la procura di Palermo la sostituzione di Amato ai vertici del Dap è una mossa dovuta alla Trattativa in corso: ad amministrare i penitenziari, Scalfaro avrebbe voluto un personaggio più morbido, meno intransigente nella gestione del carcere duro.

Uno degli oggetti della Trattativa, infatti, è l’alleggerimento delle condizioni carcerarie dei boss di Cosa Nostra. “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Articolo 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe” scrivono gli analisti della Dia in una circolare del 10 agosto 1993. Passano due mesi, e nel novembre del 1993 il guardasigilli Conso lascia scadere oltre trecento provvedimenti di 41 bis per detenuti mafiosi.

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