Il governo tedesco della “Grosse Koalition” ha rotto gli indugi, aprendo le porte al fracking sul proprio territorio. Per chi nutrisse ancora illusioni nel considerare i potentati economici ispiratori di democrazia e di salvaguardia del pianeta questo è l’ennesimo colpo duro. D’altra parte, non convive la propensione alla guerra che scuote il pianeta con una amministrazione delle risorse lungimirante e in armonia con la natura. E il governo Merkel, con i socialdemocratici a rimorchio, punta tutto su una ripresa robusta della crescita che, se anche avvenisse a spese del lavoro, del welfare e dell’ambiente, non intacchi il dominio finanziario acquisito. Anche l’intransigenza verso la Grecia rientra in questo quadro di disprezzo delle aspirazioni a una giustizia sociale e climatica ormai non più procrastinabile. E quel che colpisce è l’indistinguibilità nei comportamenti di destre e sinistre quando sono al governo di Paesi appena benestanti.

Il progetto di legge presentato in queste settimane ha cambiato le carte in tavola, anticipando al 2019 il permesso per estrarre gas da scisto, fissato in una legge precedente al 2021 e solo a condizioni di sperimentazione così severe da renderlo praticamente impraticabile.

Il ministro dell’Ambiente (SPD) Barbara Hendricks – naturalmente – ha detto che saranno applicate “le regole più severe che siano mai esistite nel settore del fracking”. E, freudianamente, ha aggiunto che l’estrazione “sarà consentita solo con il massimo rispetto per l’ambiente e l’acqua potabile”. Già, perché questa è la questione irrisolta e già negativamente verificata in Canada e negli Stati Uniti, ma occultata dal business assicurato da banche e finanza in attesa del conto da pagare dai Pantalone di tutti i Paesi. Con un sapore da umorismo noir, la ministra prevede che il fracking sia vietato in tutte le aree di approvvigionamento idrico pubblico e consentito solo con criteri chiari per la gestione dell’acqua del serbatoio in cui finiscono i fluidi dell’operazione, suscitando l’allarme dell’Associazione di Municipal Utilities (VKU), che fornisce circa l’80% di acqua potabile ai tedeschi. Naturalmente, è stata creata la solita authority, fatta di sei esperti e immediatamente denunciata di faziosità dagli ambientalisti, in quanto tre di essi si erano già pronunciati a favore dello shale gas.

Nel frattempo, anche Pechino punta ad un “boom” dello shale gas con un obiettivo di 30 miliardi di metri cubi all’anno, ovvero una crescita di 23 volte rispetto ai livelli attuali (1,3 miliardi). Ma il problema che sembra ancora irrisolto sta nella carenza di risorse idriche, indispensabili per una autentica esplosione come quella annunciata.

Se, infine guardiamo all’intera Europa, i suoi leader sono in pieno accordo sulla necessità di rilanciare l’industria manifatturiera. Ma, avvertono, sono necessari compromessi e una possibile “inversione di marcia”, riguardo al clima, l’energia e le politiche ambientali, che potrebbero porre a rischio la crescita. E così, lo shale fa gola anche ad un’Europa sul piede di guerra, che punta al pieno controllo dei rubinetti del gas – russo o nordafricano che sia.

In definitiva, gas e affari contro acqua e clima: un confronto impari se si ragiona da governanti, un confronto irragionevole se si ragiona da abitanti del pianeta.

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