“Vogliamo fare della Rai la più innovativa azienda culturale che esiste in Europa”. Se le parole sono pietre, è qui che possiamo cercare l’idea di Rai implicata da queste recentissime parole di Matteo Renzi. E sempre da qui possiamo cercare di dedurre che tipo di trasformazione ne derivi per la Rai dell’oggi in direzione di quella del domani.  I tag sono quattro: Rai, Azienda Culturale, Innovativa, Europa.

RAI. Al di là delle scadenze ravvicinate (concessione,  mandato di CdA e DG) traspare per la Rai un ruolo strategico, nel quadro della intera industria culturale italiana (cinema, tv, giornale etc.). Non, ci pare (ma siamo spesso vittime di wishfull thinking) una scelta Rai-centrica (tipo la “centralità del Servizio Pubblico” dei bei tempi andati) ma il modo di porsi il problema dell’intero sistema della industria culturale. Proprio partendo dalla azienda pubblica perché, per le dimensioni del fatturato e per la natura pubblica di oltre i due terzi dei ricavi, possiede la massa che le consente di essere volano per la trasformazione dell’intero sistema con cui interagisce o da concorrente o da committente.

AZIENDA CULTURALE. Se non si tratta di un ossimoro, la cultura a cui il Governo sembra guardare è quella della “industria della cultura”, show business compreso. In caso contrario altre espressioni erano pronte all’uso: Servizio Culturale,  Servizio Pubblico Culturale etc, fra nostalgie del Maestro Manzi (grand’uomo, peraltro), della tv in bianco-nero e della commedia al venerdì. Banalità pericolose, forse scampate.

INNOVATIVA. È facile definirsi innovatori, specie in tempi di web, offerte a pagamento e social network. Ma se tutto non si riduce al trasformismo tecnologico (la solita Rai, ma multimediale, alé!) c’è da sperare che questo Tag  alluda a più dimensioni: strutture, contenuti, linguaggi. Detto in poche parole, può essere innovativa, o almeno noi ne siamo certissimi, solo una Rai che affronti la propria “autodistruzione creativa” (Schumpeter ci perdonerà) in tutt’uno con la sua ricostruzione strategica. Insomma, la maggior parte dei dipendenti e dei collaboratori dovrebbe essere messa in condizione di cambiare sia il cosa fare sia il come farlo, al punto che la stessa, fondamentale riorganizzazione dei TG che a fatica si sta facendo strada, dovrebbe risultare solo come parte della più complessiva trasformazione. Un’impresa titanica, ma obbligata, un po’ come raccapezzarsi con la Libia. Può sembrare troppo, eppure si tratta del minimo necessario. E qui la prova del nove circa il vero senso che il Governo assegna al termine “innovazione” l’avremo al momento delle nomine del top management, a seconda che sia  più o meno professional-avventuroso o più o meno istituzional-pacioccone.

EUROPA. È fra tutte, il tag più rilevante, perché confrontarsi con l’Europa significa dare all’azienda Rai, e all’intero sistema industriale nazionale che essa dovrebbe dinamizzare, un obiettivo misurabile. Nonché arduo da raggiungere, perché le industrie culturali degli altri paesi europei, quelli  come Francia, Inghilterra, Spagna e Germania che meglio si confrontano con l’Italia, conseguono risultati che al momento ci sogniamo. Tant’è che gli altri esportano di tutto e noi quasi niente. E se il resto del mondo non ci compra,  vuol dire che vale assai poco quel che facciamo.  Viceversa, se –e nella misura in cui-  a partire dalla riforma della azienda pubblica la bilancia commerciale inizierà a riequilibrarsi, vorrà dire che la riforma avrà funzionato. E a testimoniarlo saranno i risultati misurabili e non le chiacchiere apologetiche.

Che dire? Se son pietre, fioriranno.

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