Il Sanremo del ventennale si è chiuso al sabato sera col 52% degli italiani-spettatori al momento viventi. E finalmente è accaduto quel che solitamente si dice e cioè che “la maggioranza degli italiani vede Sanremo”. Nelle serate precedenti si era trattato invece di una minoranza, ma comunque assai robusta e sempre superiore al 40% (una percentuale che. nell’anno precedente il festival, nella versione “Che festival che fa” di Fabio Fazio, aveva – di poco – scavallato solo nella serata finale). Merito degli autori o demerito dei concorrenti? Dubbio lecito.

Negli anni Ottanta di fronte all’evento Festival tutte le altre cinque reti (due Rai e tre Mediaset) si prendevano una settimana di riposo e, semmai, si facevano collaterali, spedendo inviati, rivivendo momenti. In poche parole tutto il sistema delle reti italiane si trasformava in apparato promozionale a pro’ di Rai Uno. Anche da qui partiva la spiegazione dei livelli di ascolto della serata finale, parecchio al di sopra del 70%. Poi le altre reti, a partire da Rai Tre, cominciarono a non chiudere bottega e automaticamente la fetta di torta spettante a Sanremo cominciò a ridistribuirsi. Finché oggi sforare il 50% appare – ed è – un grande risultato perché il pubblico “non sanremese” dispone di parecchie offerte sia sulla pay tv che nella turba di canaletti cosiddetti “tematici”.

Questa cifra – il “50%” è la soglia magica della tv generalista e non per caso – coincide con la somma degli ascolti dei tg delle 20. Erano al 51% nel 1992; stazionano sulla stessa quota nel 2015, dopo che oceani d’acqua sono passati sotto i ponti, salvo che i due tg maggiori hanno perso un po’ di penne a favore dell’allora inesistente TgLa7 (quello condotto da Mentana, su base ritmica, analogamente a Carlo Conti). E dunque scopriamo che l’Italia, oltre a radunarsi ancora molto per Sanremo, non è retrocessa di un millimetro dall’attenzione ai fatti della politica e della cronaca, alla faccia delle tante occasioni in più che oggi sono passate dal convento televisivo. Insomma, il “ci accade”, quel che succede fuori dalla cerchia degli interessi e degli affetti immediati, è ancora tenuto in forte considerazione rispetto al più immediato “mi” capita.

Per chi la cerca, questa sembra la prova provata che la televisione generalista è un inaffondabile fattore di socializzazione, innanzitutto per ragioni strutturali, che consistono, a nostro parere, nell’offrire l’esperienza della condivisione unita alla contemporaneità, dove “l’io” si unisce al “noi” (come allo stadio o al cinematografo). Indipendentemente, va sottolineato, dalle intenzioni più o meno socializzanti e più o meno benemerite di quelli che la dirigono e ne decidono i contenuti. Sicché un Paese che non voglia disfarsene (e con i venti di guerra che cominciano a tirare, non sembrerebbe davvero il caso di demolire i fattori di socializzazione) dovrebbe massimamente preoccuparsi di consolidarne le basi industriali e finanziarie. Materia di riflessione per chi si apprestasse a metter mano al servizio pubblico e, di riflesso, a rideterminare le basi dell’intero sistema televisivo che, come negli altri Paesi europei, gli ruota intorno.

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