Basteranno i patteggiamenti, ancorché di importo maxi, a chiudere definitivamente il vergognoso capitolo della crisi dei mutui subprime? Il giro di vite legislativo negli Stati Uniti e la timida riforma della disciplina Ue sulle agenzie di rating offrono garanzie sufficienti sul futuro? Queste alcune delle domande che sorgono spontanee dopo che Standard & Poor’s ha patteggiato con la Sec (l’omologo statunitense della Consob) una multa da 77 milioni di dollari e la sospensione per un anno dall’attività di rating su determinati prodotti e chiuso bonariamente la causa intentata dal governo statunitense pagando 1,5 miliardi di dollari. Tanti, tantissimi soldi, ma praticamente una goccia nell’oceano delle perdite causate dalla crisi finanziaria innescata dallo scoppio della bolla del 2007. Risarcimenti, è bene puntualizzare, che vanno allo Stato federale e non ai risparmiatori che hanno subito perdite.

Standard & Poor’s e Moody’s, su cui ora si prepara a muovere il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, sono state accusate di aver gonfiato ad arte per anni il rating dei prodotti legati ai mutui subprime (assegnando addirittura la “tripla A“, vale a dire il giudizio di massima affidabilità) pur di aumentare la propria clientela e il proprio giro d’affari. Un comportamento fraudolento sul quale il patteggiamento metterà la pietra tombale, disvelando però tutta l’ipocrisia delle “guardie” (o supposte tali) che nel ridare la patente di verginità a Standard & Poor’s la pretendono anche per se stesse, chiedendo all’agenzia di rating di riconoscere di non aver rinvenuto prove del fatto che il governo statunitense abbia avviato l’azione legale nei suoi confronti per ritorsione.

Nel 2011, infatti, quasi quattro anni dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime e ben prima che l’amministrazione Obama avviasse azioni legali nei confronti delle agenzie di rating, Standard & Poor’s – con una decisione senza precedenti nella storia – tagliò il merito di credito del debito sovrano degli Stati Uniti da AAA ad AA+. Una decisione, dichiarava l’agenzia, motivata dall’inadeguatezza del piano di risanamento dell’amministrazione Obama. Il Tesoro statunitense intervenne mettendo in dubbio “l’integrità e la credibilità” di S&P, accusata di “fornire un quadro fuorviante”, ma la frittata era fatta e la Cina – primo creditore degli Stati Uniti – chiese con forza la soluzione dei problemi strutturali del debito e di garantire la sicurezza degli asset cinesi denominati in dollari. Fu così che gli Stati Uniti sperimentarono per la prima volta e sulla propria pelle il costo di un downgrade senza poterci fare nulla, perché da un punto di vista legislativo il giro di vite sulle agenzie di rating e sul settore finanziario nel suo insieme era già stato fatto l’anno precedente con la promulgazione del cosiddetto Dodd Frank Act, che per quanto riguarda gli Usa ridimensiona abbastanza il ruolo delle agenzie di rating e rafforza i controlli della Sec.

Non altrettanto si può dire per l’Europa, dove nel gennaio del 2013 è stata varata una timida riforma che ha cercato di porre dei limiti ai conflitti d’interesse e agli incroci azionari e ha vietato alcune pratiche quali l’emissione di giudizi corredata da raccomandazioni di politica economica, ma nella sostanza il valore del rating ne è uscito rafforzato (e così il ruolo di queste agenzie, che altro non sono che soggetti privati alla ricerca di profitti) senza peraltro scalfire minimamente l’oligopolio costituito dalla screditatissima “triade” del rating costituita da Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch che potrà continuare ad agire sostanzialmente indisturbata.

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