Davide Faraone, sottosegretario all’Istruzione, cantore e sostenitore delle occupazioni scolastiche, ma – soprattutto – “giovane”, occhieggia ai giovani (come lui) cercando di concretizzare uno dei sogni più o meno velato dello studente medio italiano: dare il voto ai propri prof.

Dal prossimo anno, infatti, due milioni e mezzo di ragazzi tra i 15 e i 19 anni dovrebbero avere a disposizione un questionario in cui giudicheranno i loro docenti: puntualità, chiarezza d’esposizione, efficacia della didattica. Una pratica, peraltro, non così innovativa come sostiene il giovane Faraone, dal momento che molte scuole già la sperimentano. Eh già; perché dopo il tempo della scuola come palestra di democrazia, emancipazione degli individui, crescita ecologica, insieme alla Milano da bere e a Maria De Filippi è arrivata la scuola degli stakeholders (sic!), della premialità, del merito. Di una valutazione che mortifica intelligenze e saperi critici.

Il progetto di Faraone prevede poi che gli studenti potranno eleggere un loro rappresentante che andrà a ricoprire uno dei cinque posti del nucleo di valutazione (gli altri quattro saranno affidati al preside e a tre insegnanti esperti), che scriverà il rapporto di autovalutazione annuale (Rav) della scuola, avrà voce sugli scatti di merito degli insegnanti e anche sull’anno di prova necessario per il neo-docente da stabilizzare. Una paletta in più per far salire qualcuno sul trono, una in meno per scalzare qualcun altro. Naturalmente, nel Renzi Pensiero Unico, cui tutti gli accoliti religiosamente si attengono, anche nelle scelte lessicali, si tratta di una “rivoluzione”: “è stato imposto un nuovo linguaggio che sta travestendo di eccezionalità ed eccellenza la banalità” (Maria Serene Peterlin).

La scuola degli anni cinquanta – scrive Massimo Recalcati ne “L’ora di lezione” – era la scuola di Edipo: l’insegnante era l’incarnazione della tradizione e ciò lo rendeva rispettabile; in essa vigeva l’alleanza tra insegnanti e genitori. Ma da lei si è ingenerato il mostro destinato a dissacrarla: la contestazione, del ’68 e del ’77, in cui si lotta contro la Legge per far prevalere il desiderio; ma il desiderio senza legge, dice lo psicanalista, diventa puro caos, frammento. Ed eccoci alla scuola di Narciso, quella del mondo ridotto all’immagine dell’io. Una scuola in cui l’alleanza non è più tra genitori e insegnanti, ma tra figli e genitori, che si sentono chiamati ad abbattere gli ostacoli che mettono alla prova gli studenti: Narciso non sopporta né fallimento né critica. Esaltando l’io e mettendo in dubbio l’autorità del Padre, la scuola Narciso impoverisce il sapere critico analitico, schiacciandolo sulla ripetizione, sull’“oggetività” delle prove e delle griglie di valutazione. Infine una scuola possibile e auspicabile, quella di Telemaco: che riconquista il compito di restituire valore all’adulto, all’insegnante e all’adulto venuti meno, alla loro funzione come figure, simboli ed elementi centrali nel processo di “umanizzazione della vita” e di trasformazione del sapere in un corpo erotico, tentando di sono venuti meno gli adulti. Si vede che Renzi e Faraone di Recalcati non sanno niente. Il suo non è oro colato, ma una suggestiva rappresentazione per un’”erotica dell’insegnamento”.

Figli di scatole colme di soldi e tronisti, allevati alla Scuola di Narciso, Rete degli Studenti medi (per l’ennesima volta appiattita sulle posizioni del Governo) plaude all’iniziativa, in una pericolosa confusione. Valutare è un’azione – pare dire, concorde per l’ennesima volta con gli strateghi del Miur e con il giovane capo-neutra, che non prevede alcuna specifica competenza, nessuna professionalità: valutano tutti e tutti devono valutare. Perché sono consumatori. Prevengo le critiche ovvie e banali che tante volte, quando si parla di valutazione dei docenti, provengono dai non addetti ai lavori e da alcuni presidi neoliberal hard. Non sto proponendo l’assenza di valutazione, ma contestando questo – come tanti altri provvedimenti e proposte – che si sono succeduti da una ventina d’anni a questa parte, sempre più aggressivamente negli ultimi tempi. Affidare il voto agli studenti non significa operare sulla collegialità, sulla democrazia scolastica, sulla partecipazione (evocate anche dal movimento studenti di Azione Cattolica): a quello ci avevano già pensato nel ’73 e nel ’74 i decreti delegati; che molti studenti (come molti docenti e molti dirigenti e genitori) hanno fatto fallire.

In realtà – scrive l’Uds, Unione degli Studenti, unica voce fuori dal coro – una rivendicazione storica del movimento studentesco di una valutazione dei docenti da parte degli studenti, pensata per consentire a questi ultimi di potersi esprimere sulla didattica e sull’effettiva qualità del processo formativo e per poter quindi contribuire attivamente al miglioramento complessivo della realtà scolastica esiste. “Ma è inaccettabile che essa venga utilizzata strumentalmente dal Governo per alimentare una guerra tra poveri all’interno delle nostre scuole e continuare a produrre classifiche degli istituti e del personale. Non abbiamo bisogno di una patina di democraticità, di contentini o di poltrone da occupare in organi non paritetici e pensati per legittimare la premialità e la competitività. Oggi più che mai risulta prioritario che commissioni paritetiche per redigere il Pof e individuare i criteri valutativi, organi collegiali che favoriscano la partecipazione studentesca e lo strumento del referendum studentesco vengano istituiti e introdotti negli istituti. Infatti, una reale riforma del sistema di valutazione può avvenire solo nel momento in cui si spoglia la valutazione del suo ruolo di strumento di controllo e di punizione che oggi la contraddistingue. Quella attuale non è una valutazione in grado di contribuire alla crescita individuale e collettiva e, pertanto, risulta necessario slegarla dalle logiche di competitività e di mercato che la caratterizzano. Il meccanismo di autovalutazione può essere virtuoso solo se considerato in una prospettiva di ricerca didattica e pedagogica, per arginare e contrastare la deriva competitiva che avanza nelle nostre scuole e nel nostro Paese. E’ uno strumento di fondamentale importanza perché consente di integrare i dati statistici esterni e i commenti interni di chi la scuola la vive ogni giorno rispetto alla vivibilità, ai punti di forza e ai punti di debolezza dei luoghi di formazione e favorisce così la maturazione di maggiore consapevolezza e la promozione di riflessioni operative, discussioni, interventi ragionati, che vedrebbero gli studenti come soggetti attivi del processo. Contrariamente a quanto avviene con la valutazione esterna, l’autovalutazione consentirebbe anche un monitoraggio in itinere, maggiormente spendibile per il miglioramento complessivo e reale della realtà scolastica. Non è la retorica del merito ed una valutazione premiale il giusto strumento per spingere ad una maggiore attenzione pedagogica, ma, nuovi strumenti di cooperazione tra studenti e docenti, con obiettivi mirati classe per classe e studente per studente sulla base delle condizioni di partenza e non del risultato da ottenere”.

Insomma: nessuna disponibilità a svendere a suon di lusinghe il senso profondo della democrazia scolastica. Faraone, attento. C’è ancora qualcuno, in questo Paese, capace di pensare con la propria testa.

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