Con l’eurozona che ha smesso di crescere e i Paesi “periferici” – Italia inclusa – sempre più economicamente distanti dalla Germania, non possono che moltiplicarsi iniziative politiche contrarie alle istituzioni europee e alla moneta unica. Si pensi, ad esempio, ai referendum meramente consultivi (come imposto dalla Costituzione) del M5S oppure alla decisa strategia di rottura della Lega Nord. Nella maggioranza di governo, al contrario, si continua a difendere l’euro con le unghie e con i denti, e si bolla come inammissibile l’ipotesi euroexit. È così che una questione cruciale come la sopravvivenza dell’unione monetaria diventa scenario di scontro tra opposte tifoserie: da un lato, i pasdaran pro-euro a tutti i costi e, dall’altro, gli ultras anti-euro. In questo clima, la mancanza di rigore scientifico caratterizza persino i contributi più citati. Si pensi all’appello apparso sul Corriere della Sera, che mette in guardia sulle conseguenze di un’euroexit intitolato ‘Uscire dall’euro’, una tentazione pericolosa e firmato, tra gli altri, da Lorenzo Bini Smaghi, Jean-Paul Fitoussi, Antonio Padoa Schioppa e Fabrizio Saccomanni. Per non parlare delle tesi di numerosi economisti che sembrano attribuire all’euro tutti i mali d’Europa.

Ma si può fare decisamente di meglio.

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Lo dimostra lo studio pubblicato su Economia e Politica da Riccardo Realfonzo e Angelantonio Viscione: un’analisi tecnica che cerca fornire una stima più accurata e oggettiva delle conseguenze di un’uscita dall’euro, evitando il ricorso alle ipotesi lontane dalla realtà tipiche di certi modelli econometrici. Con la consapevolezza che non si è mai verificata una esperienza simile alla crisi dell’euro, gli autori valutano l’esperienza storica delle crisi valutarie più vicine, cioè rotture di accordi cambio seguite da ampie svalutazioni, concentrandosi su 28 casi che hanno interessato economie ad alto e a basso reddito.

La prima valutazione riportata nello studio riguarda gli effetti delle crisi di cambio sull’inflazione. La ragione è semplice: in questi casi la moneta di riferimento si deprezza, con il corollario che le sue esportazioni diventano più convenienti e appetibili per gli operatori stranieri. È soprattutto su questo che puntano i no-euro. Ma c’è un altro aspetto da considerare. Infatti, il costo dei beni importati tende ad aumentare proprio perché la moneta è deprezzata e questo fa innescare fenomeni inflazionistici. In effetti, esaminando i dati, Realfonzo e Viscione giungono alla conclusione che le svalutazioni hanno dato luogo a processi inflazionistici significativi. Nei paesi ad alto reddito l’inflazione erode l’effetto della svalutazione di quasi il 50% già nel giro di due anni; in quelli a basso reddito l’impennata inflazionistica è ancora più vistosa.

Successivamente, lo studio passa ad esaminare gli effetti della crisi valutaria sulla bilancia commerciale (cioè sulla differenza tra esportazioni ed importazioni). Ebbene, la bilancia commerciale tende a migliorare vistosamente nei paesi ad alto reddito e i saldi della bilancia commerciale sembrano effettivamente avere impatto positivo sulla crescita economica. I paesi ad alto reddito (a differenza di quelli a basso reddito) registrano infatti ritmi di crescita superiori rispetto al periodo precedente la svalutazione. Gli autori invitano però alla prudenza: “è opportuno notare che non tutti i paesi ad alto reddito hanno registrato aumenti del tasso di crescita”. In tal caso, a mio modesto parere è cruciale poi verificare l’elasticità delle esportazioni e delle importazioni rispetto al prezzo relativo; difatti, si tratta un fattore estremamente soggettivo, che – nel caso dell’Italia – potrebbe effettivamente favorirci, come suggerisce la stessa Commissione europea in un recente report. Difatti, dal 1992 al 1998 le esportazioni italiane sono cresciute ad una media annua del 15,70%, provocando un forte balzo del saldo della bilancia commerciale dal -2,8% del pil al +5,9%. Saldo che è poi peggiorato in séguito all’agganciamento all’euro, targato 1999.

In ultima istanza, i due economisti concentrano la loro attenzione sui possibili effetti di una fuoriuscita dall’euro sul mondo del lavoro. I due economisti notano con preoccupazione che l’analisi storica mostra che successivamente alle crisi valutarie l’occupazione non aumenta e il tasso di disoccupazione resta mediamente stazionario nei Paesi ad alto reddito. Negli anni successivi alla crisi di cambio, inoltre, ed è questo il punto che più allarmante per i due economisti, si assiste mediamente ad un drastico calo dei salari reali e della percentuale del Pil che va ai salari (quota salari), sia nei paesi a basso che ad alto reddito. In questi ultimi, il livello dei salari reali dopo tre anni è ancora inferiore a quello registrato nell’anno della crisi valutaria ed è soprattutto la quota salari che crolla, generando una forte redistribuzione dai salari ai profitti ed alle rendite. È quello che accadde in Italia dopo il 1993, allorché, complici le ”politiche salariali restrittive”(l’abbandono della scala mobile ci sembra un esempio piuttosto calzante), si assistette a “una caduta dei salari dopo tre anni di oltre il 4% e un crollo della quota salari che sfiorò il 9%”.

Insomma, un’analisi approfondita dimostra che un’uscita dall’euro potrebbe essere un’occasione per tornare a crescere, ma non priva di pericoli; e soprattutto non si tratta di una panacea per tutti i mali. È per questo che, come sottolineano Realfonzo e Viscione, la cosa migliore sarebbe una revisione radicale delle politiche economiche europee in senso espansivo e redistributivo, che permettesse all’eurozona di restare in vita. Ma si tratta, purtroppo, di un’eventualità politica molto remota, principalmente per le resistenze della Germania. Se allora il futuro ci porterà a considerare realmente l’ipotesi euroexit, ci vorrà grande attenzione: tutto dipenderà da come si esce dall’eurozona e soprattutto da quali politiche economiche verranno predisposte a tutela dei lavoratori.

di Gaetano Perone

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