Nella Torino dei primi anni 80 il professorino Giuliano Amato, che Giampaolo Pansa ed Eugenio Scalfari chiamano il Dottor Sottile per l’affilatezza delle sue tesi giuridiche e del suo fisico da roditore, può permettersi di fare l’intellettuale socialista. Tanto, a occuparsi delle prosaiche cose di questo mondo, comprese le faccende di vil danaro, provvedono per lui i capatàz della sinistra del Psi subalpino.

Il Cartòfago. Li abbiamo già visti all’opera nella raccolta dei finanziamenti da un miliardo di lire per fargli conquistare nel 1983 il suo primo seggio da deputato. Uno è Francesco Coda-Zabet, profumiere e ras delle tessere, che si vanta spesso di riuscire, volendo, a “far eleggere una pompa di benzina”. È detto “il cartofago”, per l’abilità con cui a un congresso riuscì a mangiarsi la lista dei candidati di opposizione per levarseli di torno. L’altro è l’assessore ai Trasporti Giuseppe Rolando, che di lì a poco finisce in carcere per le mazzette sui “semafori intelligenti”: la Guardia di Finanza gli trova addosso un pacco di assegni scoperti e, intercettandogli il telefono, ascolta più di un accenno ai rapporti fra lui, Coda e Amato. Anche Coda-Zabet finisce dentro nel 1987 (verrà poi assolto), per un giro di tangenti sugli appalti ospedalieri. E lì, nella sua cella di isolamento alle carceri Nuove, viene visitato dallo storico cappellano, padre Ruggero Cipolla. Che finisce pure lui agli arresti per un episodio ai confini della realtà. Il frate cappuccino, in visita al politico detenuto, gli consegna – come ammetterà lui stesso – un bigliettino con i “saluti” e gli “incoraggiamenti” di “alcuni amici, anche politici, socialisti e non”, interessati ovviamente al suo silenzio. Prima che gli agenti penitenziari riescano a sequestrarglielo, Coda il Cartofago lo legge, lo memorizza in un battibaleno, se lo infila in bocca, lo mastica e lo inghiotte. Interrogato sui nomi dei firmatari, padre Cipolla rifiuterà sempre di rispondere. Gli “amici socialisti e non” ringraziano.

Il primo SalvaSilvio. Nell’ottobre del 1984 Craxi è presidente del Consiglio da un anno e mezzo, e Amato è al suo fianco come sottosegretario a Palazzo Chigi. Tre pretori – Giuseppe Casalbore di Torino, Eugenio Bettiol di Roma e Nicola Trifuoggi di Pescara – decidono di far rispettare la legge che vieta alle tv della Fininvest di Silvio Berlusconi di trasmettere in contemporanea (“interconnessione”) su tutto il territorio nazionale, come può fare legittimamente soltanto la Rai. E pongono sotto sequestro gli impianti fuorilegge. Il Cavaliere potrebbe seguitare a trasmettere i programmi (tutti registrati su appositi nastri, le famose “pizze”) a orari scaglionati sulle sue varie emittenti locali consorziate nei network Canale5, Rete4 e Italia1. Invece decide di oscurarle del tutto, per poter dare la colpa ai giudici “comunisti” e chiamare il popolo dei Puffi e delle telenovelas alla rivolta contro l’illiberale tentativo di applicare una legge dello Stato (nella fattispecie: una sentenza della Corte costituzionale). Il presidente del Consiglio Craxi, in quel momento in visita ufficiale a Londra, annulla l’appuntamento con Margaret Thatcher e torna precipitosamente a Roma per varare in tutta fretta un apposito decreto legge (il “decreto Berlusconi”) per risolvere politicamente la questione, vanificando il provvedimento della magistratura. E legalizzando ex post l’illegalità. E anticipando di tre giorni la convocazione del Consiglio dei ministri (che si riunisce di sabato) in seduta straordinaria: mai vista tanta urgenza, nemmeno per l’alluvione del Polesine e i terremoti in Belice, Friuli e Irpinia. L’estensore della legge vergogna pro B. – la prima di una lunga serie – è il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giuliano Amato. Il provvedimento – assicura Palazzo Chigi – è solo temporaneo, per dare tempo alle Camere di varare un’organica disciplina del Far West televisivo. Balle. Persino il Parlamento italiano si ribella a cotanto sconcio, e vota a sorpresa per l’incostituzionalità del decreto. Così i pretori tornano a imporre la legge, e il Cavaliere a “oscurare” il suo network, con annessa campagna vittimistica di spot e programmi-piagnisteo. Stavolta Palazzo Chigi minaccia i partiti alleati di andare alle elezioni anticipate se non verrà salvato Berlusconi.

Orgasmo da Rotterdam. Il tempo stringe, il decreto sta per decadere, la sinistra annuncia ostruzionismo in Parlamento. Così Palazzo Chigi (i soliti Craxi & Amato) strappa al presidente del Senato (Francesco Cossiga) il contingentamento dei tempi per i singoli interventi delle opposizioni. Poi, per far decadere gli emendamenti, pone la questione di fiducia. Tanto, si dice, gli effetti del decreto scadono il 6 maggio 1985: da quella data Berlusconi non potrà più trasmettere senza una nuova legge Antitrust: “Sino all’approvazione della legge generale sul sistema radiotelevisivo – si legge nel decreto – e comunque non oltre sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, è consentita la prosecuzione dell’attività delle singole emittenti televisive private…”. Ma la nuova legge non arriva e l’ultimatum di sei mesi è pura finzione: Palazzo Chigi (i soliti Craxi & Amato) concede all’amico Silvio un’altra proroga fino al 31 dicembre 1985. Data peraltro fittizia pure quella: il governo Craxi & Amato stabilisce che il decreto non è “provvisorio”, bensì “transitorio”. In pratica, eterno. Il 3 gennaio 1986, scaduta la proroga, basta una “nota” del sottosegretario Amato per comunicare che la normativa non necessita di ulteriori proroghe legislative. Con tanti saluti alla legge, che dice “comunque non oltre sei mesi…”. Silvio è salvo. Nel 2009 l’inviato di Report Bernardo Iovene gli ricorderà quel trucchetto del decreto “transitorio” che diventava perpetuo. E lui, anziché arrossire e nascondersi sotto il tavolo, s’illuminerà d’immenso e d’incenso: “Sa, noi giuristi viviamo di queste finezze: la distinzione fra transitorio e provvisorio è quasi da orgasmo per un giurista… Quando discuto attorno a un tavolo tecnico e qualcuno dice ‘questa cosa è vietata’, io faccio aggiungere ‘tendenzialmente’…”. Dev’essere per questo che oggi è giudice della Corte costituzionale.

Il Partito degli Affari. Nel 1985 l’ingegner Carlo De Benedetti si accorda con l’Iri di Romano Prodi per acquisire il colosso alimentare Sme, un carrozzone che perde miliardi e accumula debiti. Ma Craxi non gradisce e si mette di traverso. Amato esegue: “Minacciò – scriverà Giancarlo Perna su Il Giornale (mai smentito) – il ministro delle Partecipazioni Statali Clelio Darida di sbatterlo all’Inquirente, se non avesse bloccato il mercimonio. Darida obbedì. Allora si fecero avanti Barilla, Ferrero e Berlusconi”. Il pre-contratto con l’Ingegnere fu annullato, poi il contenzioso civile venne risolto dalla solita cricca dei giudici amici di Previti.

Nel 1986-87, riecco Amato alle prese con le privatizzazioni: stavolta c’è da vendere l’Alfa Romeo (gruppo Iri). Si fanno avanti la Fiat e, con un’offerta molto più vantaggiosa, l’americana Ford. Nel Psi prevale il partito della Ford. Ma Amato rovescia gli equilibri e li porta sulla Fiat, che si aggiudica per un pezzo di pane l’unica azienda concorrente rimasta sul mercato interno. Ricorderà Craxi in un fax molto allusivo inviato nel 1995 ai Cobas dell’Alfa di Arese (parti civili nel processo di Torino a Cesare Romiti per falso in bilancio e finanziamento illecito al Psi): “Amato, come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, si occupò certamente della vicenda, mentre non se ne occupò, che io ricordi, l’intero partito. Di ritorni economici… a partiti o soggetti singoli non so nulla. Certamente non ne ebbe il partito…”. Amato, dunque, pro Fiat e altri socialisti contro: per esempio Giusy La Ganga e Giulio Di Donato. Quest’ultimo – interrogato dai pm di Torino – dipinge Amato come una sorta di zerbino ai piedi di Romiti: “La sezione locale e aziendale di Pomigliano d’Arco era orientata con maggior favore verso la cessione alla Ford. Anche il Pci locale aveva questa posizione insieme ai sindacati. Poi venni chiamato dall’on. Amato, che mi disse che la soluzione Fiat era di gran lunga migliore, sotto il profilo politico, della soluzione Ford”. E Fiat fu. (2 – continua)

Da Il Fatto Quotidiano del 22 gennaio 2015

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