Arrivare a scrivere di uno dei dischi più attesi del 2014 con quasi 3 mesi di ritardo – senza che nessuno me l’abbia chiesto – potrebbe pormi evidentemente (e consapevolmente) dalla parte dei ‘colpevoli‘ ma, voglio confessarvelo, il tempo perso l’ho speso in toto per ascoltare e masticare un album che attendevo come pochi altri e verso il quale mi sentivo di comportarmi come meglio potevo.

Sonic Highways, ottava espressione in studio dei Foo Fighters, nasce sotto l’egida del suo immediato predecessore, quel Wasting Light (2011) che, come pochi altri, ha conosciuto da vicino il trauma di venire divorato dallo stereo della mia macchina, fino ad arrivare a spegnersi e ridursi ad una manciata di mp3 sostitutivi: tanta era l’urgenza. Wasting Light era e rimane, per me, l’opera omnia non solo della già citata band ma dell’estro e della poliedricità di un personaggio insostituibile come Dave Grohl, capace – nel giro di neanche un decennio – di accrescere sempre più il lustro e la credibilità di un gruppo che aveva fino a quel momento sì morso ma mai azzannato, imponendo continue sterzate sul noioso rettilineo che tanti rinomati colleghi hanno intrapreso una volta messa da parte la voglia di osare e sperimentare, perdendo nella maggior parte dei casi anche il successo faticosamente e meritatamente raggiunto. Fatte le dovute premesse, entrando nel vivo della questione (sempre con il vergognoso ritardo di cui sopra) mi ritrovo a constatare che Sonic Highways è, contrariamente a quello che credevo (o ero stato indotto a credere) sì un bel disco, forse anche “più che bello” ma non così tanto da essere annoverato nella mia personalissima ‘Top 3’ dell’anno appena trascorso.

Quel che manca non è neanche la qualità delle canzoni (registrate ognuna in una città ‘simbolo’ della musica statunitense e rigorsamente in analogico), quanto l‘impulsività e la rabbia cui eravamo stati “educati” fin dagli esordi, il tutto opacizzato da una produzione certamente all’altezza (ancora una volta Butch Vig, batterista dei Garbage e deus ex machina di Nevermind dei Nirvana) ma ingiustamente “lineare”, incapace – il più delle volte – di donare al disco quella scossa che pure sembra insita in un moniker garante come quello appunto dei Foo Fighters. Il problema di Sonic Highways è che sembra sempre essere “sul punto di…”, senza mai arrivare però completamente a destinazione: prova ne è il fatto che quando vi riesce, sempre in parte, i risultati sono sotto gli occhi di tutti (Something From Nothing, Subterranean, Outside). Nel tentativo di rimarcare le proprie ascendenze, Dave Grohl e compagni sembrano essersi fatti prendere un po’ troppo la mano, dimenticando per buona parte dei 42 minuti resi su cd di avere l’obiettivo principale di sfornare un disco ancor prima che una “lectio magistralis” di buonissima fattura ma a tratti un po’ insipida e discontinua all’interno delle sue stesse eccellenze: I Am A River, ultimo brano in scaletta, è forse uno dei pezzi più belli scritti dall’ex sodale di Kurt Cobain ma è oltre che solo anche male accompagnato.

Ciò detto, ribadito il concetto che per il mio personalissimo “sentire” gli ultimi lavori di Elbow, Mastodon, Royal Blood e Alt-J costituiscono – a confronto – un ascolto pressoché obbligato, non posso non sentirmi comunque grato ai Foo Fighters per propagandare, con forza e onestà intellettuale ogni giorno che la musica, anche nel 2015, è ancora imbracciare uno strumento e avere voglia di spaccare il mondo.

Articolo Precedente

Sleater-Kinney, ecco il nuovo “No cities to love”: ritmo, lotta, consapevolezza

next
Articolo Successivo

Giovanni Truppi, un cantautore politicamente scorretto (e fiero di esserlo)

next