L’ironia della sorte vuole che il funerale di Re Abdullah – morto all’età di 91 anni – la dica lunga sul doppio standard internazionale che la sua personalità ha a lungo imposto sull’Arabia Saudita: una teoria di leader internazionali a Riyad, bandiere a mezz’asta dalle otto del mattino alle otto di sera in Inghilterra, infografiche sulla sterminata genealogia familiare e ipotesi sulla politica petrolifera che non dovrebbe mutare con il cambio al vertice.

Il nuovo re Salman bin Abdulaziz, 79 anni, primo nella linea al trono dal 2011 ma cagionevole di salute, custode delle due moschee sacre di Mecca e Medina, ha improntato il discorso del venerdì all’unità nazionale: fedeltà alla linea del predecessore e apprezzamento per il futuro principe ereditario Muqrin (69 anni) e per il vice premier Muhammad bin Najef, (55 anni) nipote di Abdullah; costituzione basata sul Corano e sulla Sunnah “in difesa della umma islamica e della sua gente per difendere la sua causa nel mondo”.

Nessun accenno alle questioni petrolifere che hanno reso Re Abdullah il partner commerciale indispensabile della maggioranza delle potenze occidentali ma la probabilità più accreditata è che Riyad continui a pompare il greggio a fronte di un eccesso globale, mantenendo già tracciato il percorso di riduzione dei prezzi a lungo termine. Tutto si muove nel segno della continuità ma, allo stesso tempo, la scelta del delfino bin Najef, il primo e il più capace pro nipote di Ibn Saud, fondatore del regno saudita nel 1920, segna quantomeno uno svecchiamento generazionale. Muhammad bin Najef conosce bene l’Occidente: apprezzatissimo come ministro degli Interni da Washington e da Londra, è stato responsabile delle attività di controterrorismo saudita ed è sopravvissuto a un attentato kamikaze di al-Qaeda.

La successione rimane sempre un affare di famiglia, in Arabia Saudita, e c’è chi spera in una svolta che allontani lentamente il Regno dal wahabismo, rispetto al quale Riyad deve giustificare i suoi “double standars” in materia di diritti umani. Ma la figura di Najef, nonostante abbia studiato all’estero e sia abbastanza giovane, non potrebbe segnare una svolta in questo senso.
Il doppio peso e due misure dei sauditi si mostra in tutta la sua gravità rispetto alle vicende del primo mese del 2015: la monarchia di Riyad coopera con l’alleanza internazionale contro lo Stato Islamico, ma non nasconde di adottare modelli simili di punizione contro i suoi oppositori, come nel recente caso del blogger Raif Badawi, condannato a mille frustate e dieci anni di prigione per avere criticato la scuola religiosa dominante. Non solo: Layla Bint Abd al-Mutalib Basim, una donna saudita originaria di Burma è stata decapitata in pubblica piazza alla Mecca perché accusata di avere ucciso la sua figliastra di sette anni, nonostante avesse sempre negato, fino al momento dell’esecuzione. L’episodio, quasi taciuto dai media mainstream, e reso noto solo per un video circolato su Youtube e filmato da un anonimo poliziotto, stride fortemente con la partecipazione dei regnanti sauditi alla marcia dell’11 gennaio a Parigi, in difesa del diritto di espressione dopo l’attentato al magazine Charlie Hebdo.

L’ipocrisia del regime di Riyad, in questo momento storico, si è mostrata in tutta la sua imbarazzante gravità e sta costringendo l’intellighenzia saudita a fare una serie di considerazioni che potrebbero cambiarne sia la sua naturale radice wahabita, sia la sua posizione rispetto al terrorismo internazionale. Dopo le riforme portate avanti dal re Abdullah, soprattutto sul piano scolastico e dei diritti di genere, emerge sempre più una minoranza di sauditi che ritengono le condanne pubbliche incompatibili con uno stato moderno e con un sistema giudiziario avanzato. Pur ritenendo valido un diritto penale basato sulla Sharia, non approvano la pubblica gogna, non solo per i casi di omicidio, ma anche per le pene destinate a fattucchieri, omosessuali, prostitute, tossicodipendenti. E criticano l’interpretazione saudita della legge, il pensiero unico che forma i giudici, tutti laureati all’Imam Muhammad ibn Saud University di Riyadh, e la loro sudditanza al ministero dell’Interno, oggi retto dal delfino designato Nayef, difensore – e il padre Naif prima di lui – della macchina coercitiva di questo Stato e garante della sottomissione alla famiglia reale.

Coloro che, perplessi, iniziano a mettere in dubbio questo sistema ben oleato sono coloro che sono profondamente scossi dalle dottrine radicali dello Stato Islamico e iniziano a vederne similitudini nella durezza legislativa saudita; una minoranza che si allontana sempre più dalla logica con cui, inizialmente, una parte dell’establishment saudita aveva salutato lo Stato islamico con simpatia, come un competitor dello sciismo e dell’eterna rivalità con Teheran, nutrendo poi con una certa attrazione per la base ideologica salafita dell’Isis.

Come ha sottolineato Alistair Crooke sull’Huffington Post, lo Stato Islamico ha una radice identica al wahabismo saudita, con la differenza che non ha mai abbellito la sua ideologia con la patina di modernità e la compromissione con i petrodollari e con l’Occidente, ma lo combatte strenuamente senza identificarsi in una casa reale e, soprattutto incute molta paura, una paura globale.

Quanto il regno di Riyad senza Abdallah sarà capace di mantenere la sua integrità nazionale e della corona, combattendo questo nuovo terrorismo radicale che nasce dalla sua stessa radice dottrinale? Come la corona potrà ottenere dai suoi cittadini continue e rinnovate promesse di fedeltà? Quanto tempo ancora la casa reale potrà resistere nel giocare le carte dei “double standards”? La chiave sembra essere in mano al giovane delfino conservatore Muhammad bin Najef ma è destinata a subire scossoni nell’eterno conflitto con la repubblica islamica di Teheran, in questo momento in corsa verso la supremazia regionale e il controllo del Golfo Persico.

di Laura Battaglia

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