Il tema del lavoro è senza dubbio una delle questioni più calde nell’attualità politica del Paese. Oltre al Jobs Act sul tavolo del governo c’è anche la riforma del Terzo settore. Questioni che ci toccano da vicino. Per questo, esprimo qualche suggestione in merito a partire dall’esperienza cooperativa di lavoro che abbiamo sviluppato in quarant’anni.

Mi piace partire da osservazioni di carattere generale. La prima fa riferimento al senso del lavoro nella vita dell’uomo. Riguarda l’ormai assodata – il buon Carletto ci perse la voce, per strillarla ai quattro venti! – e normalizzata verità che il lavoro è divenuto una merce di scambio, la principale moneta attraverso cui ciascuno, onestamente, si procura il necessario alla sussistenza. Una deriva di tale processo è che, quasi per una proprietà transitiva, la vera moneta di scambio è diventata il tempo: ti vendo il mio tempo, fanne quel che vuoi e in cambio pagami. In tal modo si crea una scissione tra me e l’oggetto del mio lavoro che non solo risponde a un progetto altrui, ma che spesso perde di concreto interesse.

All’interno della Cooperativa Sociale che coordino questi capisaldi cambiano e definiscono la sostanza del lavoro. E’ diverso lavorare insieme per raggiungere obiettivi condivisi, che rimangono sempre, seppur con forme e intensità peculiari, personali di ognuno. Legata stretta a ciò, c’è la “voglia di lavorare”, che ha evidenti nessi a sua volta col livello produttivo, il clima del lavoro e la felicità delle persone. Vendere all’altrui interesse la propria opera favorisce demotivazione, svogliatezza, scarsa produttiva, alienazione. Del resto possiamo dire che nel nostro impianto culturale, definitosi nel tempo, il lavoro è vissuto come una sorta di pena della colpa originale. A ben vedere, anche nel contesto biblico, per come l’ho intesa io, la condanna non sta nel lavoro ma nella fatica che comporta (col sudore della fronte caverai il frutto dalla terra…). Si tratta di una delle condanne che determinano i limiti della nostra condizione umana di mortali. Certo la fatica esiste, c’è, tutti la conosciamo; ma qual è il suo sapore quando si riesce a coglierne senso e significato? Quanto la rende sopportabile il trovarsi ad agire in contesti di lavoro frutto di un patto tra soggetti attivi, di una condivisione corresponsabile degli obiettivi, delle condizioni del lavoro e delle relative strategie retributive?

Occorre che tutto ciò sia messo al riparo dalle mistificazioni e dalle furberie di chi mette il vestito cooperativo alla semplice ricerca del profitto, cosa che mi riempie di un’indignazione che non vi dico.

Arriviamo così ad aspetti più dibattuti, ovvero la dialettica supposta e reale, tra difesa di contratti di lavoro forti (il classico tempo pieno a tempo indeterminato) e ricerca di rapporti contrattuali più flessibili che facilitino la creazione di nuovi posti di lavoro. A partire dalla nostra condizione specifica di soci lavoratori assunti con contratto di lavoro forte ma, nella sostanza dei fatti, “corresponsabilmente” precari. Di certo, nei momenti di ardua difesa dei posti di lavoro, è sempre stato d’aiuto il sentirsi sulla stessa barca, il non nascondersi dietro mansionari e ruoli, accettando anche compiti supposti più umili o decurtazioni d’orario. È stata la nostra via che ha consentito di non perdere i posti di lavoro, anche nei momenti peggiori, e senza dover mai ricorrere alla Cassa integrazione.

A volte si fa strada in me la consapevolezza che la difesa di diritti acquisiti ma non estendibili a tutti possa, nei fatti, divenire arroccamento di situazioni di privilegio di una parte della società sulla restante. Ovvio, la questione è molto più complessa di così e anche più preoccupante. Il rischio di banalizzare è alto. Va da sé che la difesa di condizioni di lavoro eque e non selvagge ha rivestito un ruolo di garante di giustizia e democrazia estese a tutti e sarebbe interessante approfondire questo aspetto della questione, magari un altro post.

Vado a concludere (ma che tentazione, dire due parole su cosa sia diventato oggi lo strumento dello sciopero; o sul piano di riforma del Terzo Settore che  sta sul tavolo di lavoro del governo Renzi…).

Dopo tutti questi anni, tra le gioie e le fatiche, i successi e le cocenti delusioni che abbiamo vissuto, siamo ancora innamorati del lavoro cooperativo, che per noi resta un percorso di felicità. Inoltre ravvisiamo alcuni elementi che c’inducono a pensare, come già affermato da altri anche qui su ilfattoquotidiano.it, che il lavoro cooperativo possa rappresentare una strada percorribile per facilitare l’avvio di nuove produttività. Diventa difficile, nel contesto attuale, pensare a forme d’investimento economico fondate sul solo obiettivo di produrre plusvalore economico per il proprio denaro investito.

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