Cultura

“La zingarata della verginella di via Ormea”: quando i rom erano gli italiani

Si tratta dell’ultimo romanzo dell’algerino Amara Lakhous. Il giallo parte da un fatto di cronaca – una 15enne torinese inventa di essere stata stuprata da due zingari – per attraversare le radici degli italiani, popolo di migranti, e le leggende sui gitani

di Elisa Murgese

”Rovistano tra i rifiuti nelle nostre strade, i loro bambini crescono in luridi scantinati e poi vengono spediti nelle strade a fare soldi”. Non è una frase tratta da un giornale italiano e riferita ai rom, ma un articolo del New York Times del 1882 in cui un giornalista descrive gli italiani d’America. Questa l’epigrafe di La zingarata della verginella di via Ormea, ultimo romanzo di Amara Lakhous (edizioni e/o). Nato ad Algeri nel 1970 e fuggito in Italia all’età di 25 anni, Lakhous è una delle voci che meglio ha saputo rappresentare il rapporto degli italiani con i nuovi italiani e gli anti-italiani. Il romanzo, metà commedia all’italiana e metà giallo, si basa su un fatto di cronaca: una 15enne del quartiere torinese di San Salvario finge di essere stata violentata da due rom. Pochi giorni dopo un campo nomadi è dato alle fiamme, ferendo anche una donna e il suo bambino. Sarà il giornalista di cronaca nera Enzo Laganà a dover chiarire se lo stupro è avvenuto davvero. E la cronaca farà giustizia: la ragazza si era inventata tutto.

Quando è stato il suo primo incontro con i rom?
In una leggenda di mia madre. Sono il sesto di nove figlie e i miei genitori non potevano controllare tutti. Per metterci in guardia, i miei genitori hanno inventato la storia di una giovane donna era andata in ospedale con il suo bambino. Dovendo andare in bagno, ha chiesto ad una vecchia di curare suo figlio. Ma quando è tornata la vecchia e il bambino erano spariti. La giovane donna non si era accorta che la vecchia fosse una zingara.

Quali sono secondo lei le origini di questo racconto?
Siamo spaventati da povertà e malattia. E vediamo nei rom quello che non vogliamo essere. Sei anni fa ho collaborato a Barbari, un programma su La7. Volevamo raccontare la vita delle comunità straniere in Italia. Siamo anche entrati nei campi rom. La loro è una vita molto dura. Non so quante persone sarebbero in grado di vivere in quelle condizioni.

Quindi?
Non sono d’accordo sul bisogno di insistere sulla moralità dei giornalisti e sul fatto che debbano essere. Loro rispecchiano la società in cui lavorano. E comunque, i danni fatti dai giornali sono sempre minori di quelli della tv. Pensiamo ai danni fatti da Emilio Fede e Bruno Vespa: sono incalcolabili.

Crede che l’Italia sai un Paese accogliente?
L’Italia non lo so, alcuni italiani di certo. C’è poi un grande paradosso tutto vostro: avete una grande diffidenza nei confronti degli immigrati e allo stesso tempo affidate i vostri genitori a donne straniere.

Cosa l’ha spinta a scrivere sui rom e sull’Italia?
Ho scritto questo libro partendo da due assurdità. La prima è che nonostante i rom siano arrivati in Piemonte nel Medioevo, ci troviamo ancora a parlare della paura che hanno gli italiani nei loro confronti. La seconda è una domanda: fa più danno un rom che ruba un portafogli o le banche che mi hanno cercato di vendere le azioni Parmalat?

E’ il quarto romanzo sull’Italia. E’ la chiusura di un ciclo?
Si, proprio così. Ho voluto scrivere tanto su questo Paese che mi ha accolto quando sono scappato dall’Algeria nel 1995. Ho cercato di lavorare sulla memoria italiana e di tranquillizzarne l’immaginario.

Cosa intende?
Il vostro immaginario è turbato dalla storia. Non esiste un altro popolo che è emigrato tanto in tutto il mondo come gli italiani. A questo si aggiunge chi dal meridione è venuto al nord. Questo passato per voi è ancora una ferita. Invece l’Italia dovrebbe guardare al passato dei suoi cittadini e ricordarsi che c’è una differenza tra il povero e il poveraccio.

Cioè?
I migranti che arrivano oggi in Italia non sono poveracci, sono persone coraggiose e spesso istruite. I vigliacchi non emigrano. E questo gli italiani dovrebbero saperlo bene. L’immigrazione è una grande sfida ma come tutte le sfide se non sei attrezzato non vinci. E in questo l’Italia sta perdendo. Basti pensare agli immigrati di seconda generazione a cui non viene neppure riconosciuta la cittadinanza.

Da qualche mese dall’Italia si è trasferito a New York. Perché?
Mia moglie sta facendo un dottorato e l’ho seguita. Sto facendo l’immigrato. La vita è sempre fatta di sfide. Non si può crescere senza sfide e a me piace giocare in attacco.

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