Golden Globes, vince la B. Non quella dello stra-favorito Birdman, ma di Boyhood, l’arte-vita di Richard Linklater che trionfa ai 72 esimi riconoscimenti della stampa estera accreditata a Hollywood.

Miglior film drammatico, miglior regista e migliore attrice non protagonista, Patricia Arquette. Ma la B vittoriosa è anche della Berlinale, che mette dietro Cannes e Venezia: l’anno scorso Boyhood vinse per la regia l’Orso d’Argento, metallo assegnato (Gran Premio della Giuria) anche a The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, che ai Globi la spunta quale migliore commedia/musical battendo proprio Birdman.

Insomma, Berlino sugli scudi e qualche previsione in chiave Oscar da rivedere: a due giorni (il 15 gennaio) dalle nomination agli Academy Awards, sicuri che Birdman del messicano Alejandro González Iñárritu e Selma, sulla marcia di Martin Luther King per il diritto di voto nel 1965, siano ancora i papabilissimi?

Tranche de vie lunga 12 anni, con gli attori Ethan Hawke, Arquette, Lorelei Linklater e Ellar Coltrane seguiti e filmati dal 2002 al 2014, Boyhood ha incassato un’ipoteca pesantissima per le statuette più ambite: tradizionalmente meno inclini a premiare i film piccoli, indipendenti e senza star di prima grandezza, i Globi stavolta hanno stupito e, secondo molti analisti Usa, spianato la strada per la vittoria finale all’ 87 esima Notte degli Oscar, in programma al Dolby Theatre di Los Angeles il 22 febbraio prossimo.

Vedremo, ma agli annali vanno già gli ironici ringraziamenti di Wes Anderson ai membri della Hollywood Foreign quali “Dagmar, Munawar, Helmut, Anka…”. Fronte degli attori, i migliori drammatici sono il londinese Eddie Redmayne, metamorfico ed empatico nei panni del fisico teorico Stephen Hawking affetto da SLA ne La teoria del tutto (da giovedì in sala), e Julianne Moore per Still Alice, mentre per commedie e musical la spuntano Michael Keaton, l’ex supereroe hollywoodiano che cerca il rilancio in Birdman, e Amy Adams, protagonista del burtoniano Big Eyes.

Se Julianne Moore e la dimenticata Rosamund Pike di Gone Girl sono in pole position per gli Oscar, Keaton vs. Redmayne, con il Benedict Cumberbatch di The Imitation Game per terzo incomodo, è la probabile disfida maschile. Non sarà della partita George Clooney, ma accompagnato dalla fresca sposa Amal s’è già consolato con il Cecil B. DeMille alla carriera dei Globes: nell’acceptance speech, ha guardato ai “milioni di persone (che) hanno marciato non solo a Parigi ma in tutto il mondo. Ed erano cristiani, ebrei e musulmani. Erano i leader dei paesi del mondo e non hanno marciato per protestare. Hanno marciato per supportare l’idea che non cammineremo nella paura. Non lo faremo. Je suis Charlie. Thank you”.

Se tra dichiarazioni, spille e cartelli #CharlieHebdo è stato il tema politico, ai Globes non sono mancati riferimenti al #SonyHack, con le presentatrici Tina Fey e Amy Poehler a sbeffeggiare la Corea del Nord per The Interview: la coppia ha replicato per Bill Cosby, recentemente accusato a più riprese di violenza sessuale. Poche risate, comunque. Nell’agenda della serata losangelina anche i diritti Lgbt, grazie alla premiata serie Amazon Transparency con Jeffrey Tambor nel ruolo di un transgender, e il caso Ferguson, con John Legend e Common laureati per la canzone Glory di Selma: “Sentivo che era più di un film. Io – ha detto Common – sono il ragazzino nero disarmato che avrebbe bisogno di una mano, ma invece gli viene dato un proiettile. Sono i due poliziotti caduti in servizio. (…) Ora è il momento di cambiare il mondo”.

Connotazioni geopolitiche, viceversa, per la vittoria tra i film stranieri del russo Leviathan di Andrey Zvyaginstev (prossimamente nelle nostre sale con Academy Two): non accadeva dal 1969, quando Guerra e pace di Sergey Bondarchuk bissò anche agli Oscar, che un film russo trionfasse ai Golden Globe Awards. Qui ha battuto il candidato principe, il polacco Ida, e l’outsider svedese Force Majeure: dopodomani, nella corsa agli Oscar, potrebbe trovare anche Timbuktu di Abderrahmane Sissako, dalla Mauritania con due occhi sul fondamentalismo islamico.

Infine, il controcanto televisivo dei Globes: hanno vinto le serie nuove di pacca, da The Affair (miglior drama più l’attrice Ruth Wilson) a Transparent e Fargo (migliore miniseri/Tv movie e il cattivo Billy Bob Thornton). Calici in alto per la vittoria del “drammatico” Kevin Spacey, alias il mefistofelico politico Frank Underwood di House of Cards, viceversa, tanta è la delusione per True Detective: quattro nomination, tra cui i protagonisti Matthew McConaughey e Woody Harrelson, e nessuna trasformata. Per il resto, tutto il mondo è paese, e il manuale Cencelli impera anche a Hollywood: Amazon (2), FX (2), Showtime (2), The CW (1), HBO (1), Netflix (1), PBS (1) e Sundance TV (1), hanno vinto tutti. E nessuno.

Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2015

→  Sostieni l’informazione libera: Abbonati rinnova il tuo abbonamento al Fatto Quotidiano

Articolo Precedente

Christopher Vogler: lezioni americane

next
Articolo Successivo

Still Alice, la lotta contro l’Alzheimer per non perdere le tracce di una vita

next