Una volta dire Panama, significava Canale, sebbene il piccolo Stato del Centro-America, per quasi un secolo, non sia mai stato padrone di ciò che legittimamente gli appartiene. Ad agosto 2014, questo passaggio cruciale dall’Atlantico al Pacifico ha celebrato il suo primo centenario. Inglobato nel territorio degli Stati Uniti dal 1904, ci volle l’impegno cocciuto di Omar Torrijos, generale che contava più del presidente, a firmare con Jimmy Carter, un trattato che restituì nel 1979 il canale ai panamensi. Un’audacia che il militare pagò con la vita due anni dopo, ucciso, secondo versioni non ufficiali, da un attentato della Cia che mise una bomba sul suo aereo.

La morte di Torrijos ridiede fiato alle pretese della multinazionale Bechtel, che paventava la presenza giapponese, e poteva contare nel suo direttorio il segretario di Stato Shultz e Weinberger alla Difesa. Il nuovo leader di Panama, Manuel Noriega, era collegato alla Cia, come il primo Saddam in Iraq. Garantì la nuova joint-venture Panama-Usa. La tresca durò fino al 1989, anno della salita alla Presidenza di George Bush Senior, il quale, con il pretesto dei traffici di droga perpetrati da Noriega, ordinò, violando i trattati internazionali, una sanguinosa invasione, preceduta da un bombardamento aereo che uccise circa 4.000 civili, tra cui donne e bambini. Secondo la testimonianza di John Perkins, all’epoca consulente economico della Main Co., i cadaveri furono fatti sparire dai marines, bruciando i corpi, e impedendo alla Croce Rossa, alla stampa e alle Ong l’ingresso nel territorio.

Il canale tornò sotto il diretto controllo statunitense, che ne dispose in maniera esclusiva fino al 2000, anno della sua restituzione a Panama. I traffici decuplicati, hanno provocato il suo ampliamento. Sono comparse le grinfie spagnole e italiane, in uno scenario generale di corruzione, che hanno coinvolto l’ex presidente di origini italiane Ricardo Martinelli, e i cartelli colombiani. I quali non si son fatti sfuggire l’occasione di incrementare il mestiere più antico del mondo. 

Canale-Panama-Blog

Putas room service

Panama City: se Fellini fosse ancora vivo, forse ambienterebbe quaggiù una riedizione caraibica del suo celeberrimo film; davanti e dentro il Grand Hotel Veneto-Wyndham, sancta sanctorum del piacere, le ragazze brulicano come api sul favo del miele; la Dolce Vita notturna scorre a flusso continuo, per la gioia degli attempati e poco attraenti single canadesi, statunitensi, brasiliani… e italiani, claro!

Un cash-flow che garantisce, solo a livello marchette, quasi cento milioni di dollari l’anno, ma questo è il minimo… perché tutto ruota intorno alle chicas. Overbooking le attività alberghiere, non-stop casinò, ristoranti e pizzerie aperti 24 ore… gli affittacamere fanno affari d’oro, con le fanciulle, che pagano a testa dai 4 ai 500 dollari al mese per appartamenti da 4-5 persone; e non ultimi in questa pioggia dorata, funzionari dell’immigrazione i quali, sebbene la prostituzione non sia illegale a Panama, colgono ogni pretesto per arrestare le tapine, minacciandole di deportazione, che possono però evitare, pagando una tangente di 1.000 dollari, alla quale sovente contribuisce lo sponsor di turno.

La forza lavoro è stimata di circa 2.500 colombiane, presenti a Panama City e dintorni. La faccia tosta del management alberghiero, coperto dalla corruzione governativa, si spinge fino al punto di lasciare sotto la soglia dei tricks (*) listini speciali di “combo” sessuale, un vero e proprio room service del piacere primordiale.

Tra queste milizie del sollazzo, si reclutano anche corpi scelti, per l’intrattenimento di personaggi importanti in visita, ai fini della chiusura di affari miliardari.

(*) clienti delle prostitute

 

O la Borsa o Lavitola

L’ampliamento del Canale era un’occasione troppo ghiotta per Impregilo, che aveva vinto l’appalto, insieme alla spagnola Sacyr, con un capitolato inferiore di quasi la metà rispetto alla concorrenza. Storico accordo, preceduto da svariati viaggi del fido Lavitola, portaborse del Cavaliere, il quale sancì il Patto d’Acciaio incontrando il presidente Martinelli, in veste ufficiale di Primo ministro italiano, nel giugno 2010. Grandi amiconi i due; il Re italo-panamense dei supermercati, e il Moloch televisivo nostrano, si sono scambiati, coadiuvati dai loro faccendieri, favori e festini, allietati dalla procace manodopera locale, su entrambi i fronti.

Un idillio guastato prima dalla mancata promessa di costruire un ospedale nella regione del presidente, che, a detta del pm di Napoli, celava nelle pieghe delle fatture gonfiate, succosi bonus per la Premiata Ditta Martinelli & Co. come già avvenuto per altre opere pubbliche a Panama City. Poi il disarcionamento del Cavaliere e l’arresto di Lavitola, lasciarono il capo di Stato senza punti di riferimento in Italia.

La mazzata finale al suo carisma fu lo sforamento del budget di oltre un miliardo d’euro ai fini dei lavori per il canale. A nulla valse la convocazione de l’ambasciatore italiano e spagnolo; l’opera fu interrotta, Impregilo crollò in Borsa e Sacyr rischiò la bancarotta. Martinelli finì indagato in Italia per istigazione alla corruzione; uno scandalo che si riflette sulla sua amministrazione; comunque sia, egli non si sarebbe potuto presentare, per impedimento costituzionale, alle consultazioni presidenziali del maggio scorso.

Lo zoo di Panama, è la vetrina permanente degli errori e orrori che affliggono l’America Latina dal dopoguerra in poi, in un quadro di povertà diffusa, che resiste allo strombazzato progresso.

Dopo decenni di mungitura della vacca da parte nord-americana, anni di traffici di droga e prostituzione dei cartelli locali e colombiani, corruzione a 360° negli organi governativi, hotel-bordello al centro della capitale, la ciliegina sulla torta per i panamensi è stata avere un semi-italiano ai vertici dello Stato. “Un onore e un vanto della città di Lucca” così in tempi già sospetti proclamò il sindaco della città di cui l’ex presidente è originario. Un onore e un vanto, come da nostra sempiterna tradizione.

 

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