Due parole per sostenere la campagna a favore dell’eutanasia, per la buona morte degli, ex, alberi di Natale. Per quei poveracci, quei disgraziati relitti di una esausta ritualità tardo germanica, che in questi stanchi giorni di doponatale sono lì che aspettano di morire, almeno quello, di morire e farla finita con quella che nessuno può in coscienza chiamare vita, una vita con quel minimo di dignità da valer la pena di essere vissuta.

Per umana pietà, per quel minimo di  considerazione che è dovuta a ogni forma di vita, per metterci una, almeno una, pezza alla sconsideratezza di una irresponsabile manomissione del regno vegetale, si aprano le fornaci regionali, i crematori municipali, i falò rionali e si tolga la spina a queste sventurate creature.

E, sia chiaro, non parlo di quelle destinate alla discarica, che se non altro la discarica è pur sempre una soluzione di una pur qualche clemenza, ma delle tapinissime destinate da una falsa coscienza e da una subdola crudeltà ad essere intubate nei giardini, negli orti e nei cortili, i reparti di lungo degenza di un immenso e immondo lazzaretto urbano e suburbano dove passeranno anni di indicibile sofferenza prima di estinguersi collassando sulle proprie spoglie.

È disseminata l’Italia più selvaggiamente nemica del naturale habitat conifero di questi morituri esposti alla pubblica agonia, di alcuni di loro ci si prende sadica beffa perseverando a caricarli di palle di plastica radioattiva e lumini cancerogeni. Sarebbe ora di dargli requie e, proprio volendo, sarebbe ora di perdere l’abitudine e mettersi a fare dei gran presepi.

Articolo Precedente

Seccare? La calla non ci sta

next
Articolo Successivo

Tramontana, la vita si rintana

next