Il fatto è ormai noto, certo, incontestabile.

Il 24 dicembre, il giorno della vigilia di Natale, nell’ultimo decreto legge datato 2014, uscito dal Consiglio dei Ministri del Premier Matteo Renzi, sono stati infilati una manciata di caratteri – poche centinaia, spazi inclusi – che ora minacciano di restituire all’ex Cavaliere Silvio Berlusconi, la libertà di tornare a candidarsi alla guida del Paese nonostante la condanna riportata, in via definitiva, non per essere passato con il rosso ma per aver evaso le tasse della Nazione che ha a lungo rappresentato, e che, naturalmente, vorrebbe tornare a rappresentare.

renzi berlusconi ppChe un Governo di sinistra, riabiliti l’ex Premier di un governo di centrodestra – per quel poco che ancora valgono destra e sinistra – è, ovviamente, una notizia che non può passare inosservata e che, giustamente, sta rimbalzando sulle prime pagine di tutti i giornali.

Difficile, per non dire impossibile, sopire un dibattito ormai esploso ad ogni livello nell’ambito del quale stanno dicendo la loro giuristi insigni, commentatori politici, opinionisti, tuttologi e, ovviamente, complottisti e cospirazionisti.

C’è però un fatto nel fatto che non può essere lasciato passare inosservato o, semplicemente, essere oscurato dal merito della vicenda, dall’eccellenza dei personaggi che vi sono coinvolti, dal paradosso di una legge ingiusta che minaccia di travolgerne una giusta: in un Paese normale la mano di chi scrive una legge non può essere ignota come quella di un killer.

L’aspetto più inquietante – anche se, purtroppo, non anche quello che sorprende di più – dell’intera vicenda è che, a dieci giorni da quando qualcuno è riuscito ad infilare nel testo di un decreto legge una manciata di caratteri di portata così tanto dirompente, il nome di questo qualcuno sia etichettato, sfortunatamente a ragione, da giornali e commentatori politici come un giallo.

E’ un fatto democraticamente insostenibile perché mette a nudo l’intrinseca debolezza dei processi di governo della Repubblica e l’insicurezza del ponte di comando.

Quello che si è consumato il 24 dicembre è un attentato alla Repubblica nella sua più alta espressione ovvero nell’esercizio del suo potere legislativo è esattamente come se un attentatore si fosse intrufolato nella cabina di comando di un aeroplano e lo avesse dirottato, costringendo il pilota ad atterrare altrove e riuscendo poi a farla franca, a non essere catturato e neppure identificato.

Stiamo dicendo che l’esercizio del potere legislativo che la Costituzione della Repubblica – peraltro in via eccezionale – riconosce all’Esecutivo è hackerabile, per dirla in gergo informatico e che qualcuno può assumerne illegittimamente il controllo e piegarlo ad uso e consumo proprio o dei propri compagni di merende.

In un contesto di questo genere, il merito della vicenda, dovrebbe passare in secondo piano. Qualcuno, questa volta, ha provato a restituire all’ex Cavaliere la libertà di candidarsi che leggi e giudici gli hanno giustamente negato.

E la prossima volta? Quale potrebbe essere l’obiettivo degli attentatori della democrazia?

E’ per questo che il punto non è che l’attentato sia stato – forse – sventato e, neppure, che il governo abbia chiarito, più o meno, la sua posizione in relazione all’assenza di qualsiasi intenzione di “graziare” l’ex Cavaliere e il premier ha bloccato il decreto.

Il punto è che, ora, è urgente che il governo racconti – senza nessuna reticenza e senza neppure un istante di ulteriore ritardo – cosa è accaduto esattamente il 24 dicembre, chi è riuscito a “piegare” ad obiettivi anti-democratici il potere legislativo che, in via eccezionale, la Costituzione affida all’Esecutivo.

Ed è poi altrettanto urgente che i processi di produzione normativa siano radicalmente ristrutturati anche attraverso l’utilizzo dell’informatica, che le azioni di chi mette le mani sul testo di una legge siano tracciate, secondo per secondo, bit per bit e che, mai più, ci si possa ritrovare a domandarsi chi è l’autore di una legge dello Stato.

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