Il prossimo dicembre, alla COP21 di Parigi si concluderà il percorso negoziale nato quattro anni fa a Durban con l’obiettivo di trovare un nuovo accordo globale per contrastare i cambiamenti climatici. Stavolta, davvero, sarà l’ultima opportunità per definire misure concrete in tempo per evitare i peggiori effetti dei cambiamenti climatici. Ma a che punto siamo?

Il 2014 è stato un anno ricco di appuntamenti nell’agenda climatica internazionale. Oltre a tre negoziati tecnici intermedi svoltisi a Bonn, rispettivamente a marzo, giugno e ottobre, a settembre si è tenuto a New York il Climate Summit, indetto dal Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon per accelerare il processo negoziale dialogando con il maggior numero possibile di Capi di Stato. Ad accompagnare l’evento, il 21 settembre cittadini e associazioni hanno marciato in centinaia di città nel mondo dando vita alla più grande mobilitazione per il clima mai avvenuta nella storia. Il 23 ottobre l’Unione Europea ha poi approvato il nuovo Pacchetto Clima ed Energia al 2030, mentre il 12 novembre Stati Uniti e Cina hanno siglato una storica intesa per ridurre e porre un limite alle emissioni, rispettivamente. Infine, dal 1 al 13 dicembre si è svolta a Lima la COP20, dove si sono definiti gli elementi che dovranno essere contenuti nel nuovo accordo.

Un anno inannextenso, dunque, sebbene interamente impostato in preparazione del 2015, che si appresta ad essere l’anno veramente decisivo nella lotta ai cambiamenti climatici. A Parigi si avrà infatti la fine di un percorso, nato dalle ceneri di Copenaghen, alla ricerca di un accordo che possa coinvolgere tutti i paesi, superando di fatto lo schema-Annex (rappresentato nell’inforgrafica) che nel Protocollo di Kyoto contrapponeva i paesi in via di sviluppo a quelli sviluppati, con gli impegni per la riduzione delle emissioni tutti a carico di quest’ultimi.

L’ADP draft text, ultimo documento rilasciato dalla COP20 come parte del pacchetto approvato, il Lima Call for Climate Action, prevede che una prima bozza di testo negoziale per il nuovo accordo venga redatta entro il mese di maggio. A Lima le Parti hanno concordato quelli che saranno gli elementi coperti dal nuovo “accordo, protocollo o altro strumento con forza legale” (ancora da definire), ovvero: mitigazione, adattamento, finanza, sviluppo e trasferimento tecnologico, capacity-building e trasparenza delle azioni.

Restano tuttavia ancora irrisolte e in fase di piena discussione tre tematiche fondamentali:

1. Durata e anno di riferimento dei contributi nazionali per la riduzione delle emissioni. Alcuni paesi spingono per un periodo d’impegno decennale (2020-2030): fra questi Cina e Unione Europea, con quest’ultima che vorrebbe in questo modo allineare gli impegni internazionali al proprio Pacchetto Energia e Clima che ha scadenza proprio al 2030; al contrario, Stati Uniti, gran parte dei paesi meno sviluppati e le associazioni ambientaliste vorrebbero due periodi da 5 anni. Ma mentre per i primi le ragioni sono politiche (cinque anni è la durata del mandato presidenziale statunitense…), per gli altri le ragioni stanno nel fatto che avere due periodi consente la rinegoziazione degli obiettivi al termine dei primi cinque anni (nel 2025), lasciando dunque aperta la possibilità per un incremento dei livelli di ambizione sulla base dei progressi che scienza e tecnologia avranno, nel frattempo, maturato. Altrettanto importante sarà la definizione di un anno di riferimento comune: ogni Paese ha chiaramente interesse affinché questo venga scelto nell’anno in cui le proprie emissioni erano più alte, affinché la percentuale di riduzione delle emissioni risulti, a sua volta, più alta, una volta definita la soglia a cui si vuole giungere. Se per l’Unione Europea il 1990 è sempre una buona opzione, Stati Uniti e Australia sembrano orientati, rispettivamente, verso 2005 e 2000; se si aggiungono i diversi interessi delle grandi economie emergenti e dei paesi meno sviluppati, si capisce come le negoziazioni saranno estremamente ardue su questo punto.

2. Il meccanismo Loss & Damage. Nel susseguirsi delle bozze di testo rilasciate a Lima, il Loss & Damage ha avuto un percorso travagliato: dapprima inserito all’interno dell’adattamento, in seguito eliminato completamente dal testo ed infine recuperato in extremis. Non è dunque ancora chiaro quale sarà il futuro di questo meccanismo, richiesto a gran voce dai paesi più vulnerabili per avere subito dei fondi per far fronte ai danni che già oggi stanno subendo per via del cambiamento climatico, ma visto con diffidenza soprattutto dall’Unione Europea per le – oggettive – difficoltà nel definire un sistema di compensazione: come distinguere, in un evento catastrofico, gli effetti causati dal cambiamento climatico da quelli che si sarebbero verificati ugualmente? E, anche ammettendo sia proprio il cambiamento climatico la causa di un determinato danno, come quantificare la porzione di danni causata dal fenomeno e quella, invece, dovuta ad eventuali negligenze del paese in questione nella gestione delle proprie infrastrutture? In sintesi, le divergenze su questo tema sembrano essere ancora troppe, e l’ambiguità del paragrafo ad esso dedicato nel documento di Lima sembra indicare come la decisione sia stata rimandata. L’urgenza nell’adottare questo meccanismo sta però nel fatto che alcuni paesi, su tutti le piccole isole del Pacifico, stanno già oggi letteralmente scomparendo per via dell’innalzamento del livello dei mari, e pertanto qualsiasi decisione venga presa a Parigi, anche la più ambiziosa, potrebbe mostrare i suoi effetti quando per loro sarà già troppo tardi.

3. Finanza. Diverse sono le istituzioni esistenti, ma certamente quella più importante è attualmente rappresentata dal Green Climate Fund (GCF), che con molta probabilità si affermerà come meccanismo finanziario del nuovo accordo globale. Il GCF ha recentemente raggiunto i 10,2 miliardi di dollari di capitalizzazione: un buon risultato, che consente al meccanismo di poter cominciare ad operare sostenendo i paesi in via di sviluppo su mitigazione e adattamento, ma ancora ben lontano dall’obiettivo di 100 miliardi l’anno entro il 2020 definito a Copenaghen. Per quanto riguarda l’Adaptation Fund, dedicato al solo adattamento, sono state invece superate le aspettative (di 100 milioni di dollari per il biennio 2012-2013) con il raggiungimento di 408 milioni versati; è stato inoltre fissato un nuovo obiettivo per il 2014-2015 pari ad 80 milioni, 50 dei quali sono già stati stanziati dalla sola Germania.

Senza titoloUno scenario ancora complesso, dunque, e solo pochi mesi a disposizione per districarlo. A partire da gennaio, le Parti dovranno infatti presentare i propri contributi nazionali volontari (INDCs) sui vari elementi. La prima scadenza, per i paesi in grado di rispettarla, sarà il 31 marzo; l’ultima dovrebbe essere il 1 ottobre, per consentire al Segretariato dell’Unfccc di redigere, entro il 1 novembre, un rapporto che possa valutare se le misure presentate dai paesi siano in grado, complessivamente, di mantenere l’aumento di temperatura al di sotto di 1.5-2°C entro la fine del secolo. Sperando siano abbastanza, si aprirà poi la COP21 nella capitale francese: l’ultima chiamata, stavolta davvero.

di Federico Brocchieri

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