In questa fine d’anno un augurio speciale andrebbe fatto a quegli spettatori italiani che nonostante tutto continuano ad andare al cinema. Sì, perché andare al cinema, cioè fare il più semplice gesto di amore per la settima arte, è sempre meno facile e scontato. Non solo perché la crisi morde e andare in due o in quattro al cinema con tutti gli annessi e connessi (parcheggi, popcorn ecc.) comincia a essere un affare complicato; non solo perché in un paese dove per la cultura si spende meno che in qualsiasi altro paese dell’Unione (lo 0,6% del Pil nel 2011: meno anche di Grecia, Bulgaria e Malta, fonte: governo italiano) chi vuole investire tempo e denaro in oggetti che hanno a che fare con la cultura sembra un pericoloso agitatore; ma soprattutto perché al cinema i film non ci sono. Sì, non ci sono più.

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Facciamo un piccolo confronto: in questo mese di dicembre che sta finendo in Francia sono usciti ottantuno film, in Italia meno della metà (per l’esattezza trentatré se includiamo anche oggetti che proprio film non sono, tipo il Fidelio della Scala ritrasmesso in diretta in molte sale cinematografiche il giorno della prima, all’inizio del mese). Tra il 1° e il 22 gennaio la musica sarà la stessa: in Italia usciranno ventitré film, in Francia cinquantatré, più del doppio rispetto a quelli disponibili sui nostri schermi.

Ma non basta: se andiamo a confrontare i menu che si offriranno sugli schermi dei due paesi, vediamo che la loro composizione è sensibilmente diversa. Infatti in Italia ben quindici dei ventitré film sono di produzione o coproduzione americana o inglese e solo cinque sono italiani. In Francia – fonte: allocine.fr – invece ben ventisette film, più della metà del totale, sono di produzione o coproduzione francese, e solo quattordici sono americani o inglesi. Inoltre i rimanenti dodici film coprono più o meno tutto il mondo: dall’Asia al Sud America, dall’Europa del Nord a Israele.

Come dire, noi diamo l’impressione di un Paese cinematograficamente colonizzato dalla cultura angloamericana, al contrario dei nostri cugini transalpini, che hanno fatto della battaglia sull’eccezione culturale una loro bandiera. Il bello è che dal punto di vista della produzione la situazione non è così disastrosa e basta andare a un festival di cinema per vedere molte cose anche fresche e vivaci realizzate da giovani cineasti italiani, che però poi stentano a trovare una via d’accesso al pubblico per una sorta di censura della distribuzione.

Di fronte a questa vera e propria carestia di offerta si comincia a capire perché i dati di incasso di questi giorni registrano l’ennesima batosta dei botteghini italiani: rispetto ai corrispondenti giorni del 2013, nei giorni dal 24 al 28 dicembre si son persi il 20% degli incassi e degli spettatori (in cifra assoluta questo vuol dire un milione di spettatori in meno, gente che non va più al cinema…). Ma è facile vedere che l’offerta della seconda metà di dicembre è ridottissima: a quale pubblico si punta? Probabilmente solo a quel pubblico che va al cinema di rado o quasi mai, tradizionalmente il giorno di Natale o il giorno dopo, e basta. Ma questo consumo mordi e fuggi è il più fragile e pronto a trasmigrare verso altri oggetti che dovessero manifestarsi sul mercato in forme più appetibili.

Ciò che la distribuzione cinematografica sembra non voler registrare è il fatto che il mercato dell’audiovisivo in generale si sposta sempre più verso un consumo on demand, il quale sostituisce la tradizionale formula della proposta di prodotto proveniente dall’alto (basta pensare alla tv, sempre meno vista col vecchio apparecchio e sempre di più via web): come spesso si dice, si sta passando da un sistema push a un sistema pull. Il pubblico vuole scegliere di più e con più autonomia. A fronte di questa tendenza la distribuzione italiana cosa fa? Anziché aumentare l’offerta la restringe, invadendo le sale con centinaia di copie dello stesso prodotto e riducendo alla fame le sale che non si allineano. Se questo è l’orizzonte, buon 2015.

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