Ora le promotrici sperano in un supporto del governo di David Cameron, senza il quale la legge potrebbe avere alcune difficoltà nelle successive letture in parlamento. Ma è stato comunque un successo il voto che ha visto passare, con 258 sì e 8 no (tutti da parte dei conservatori), la proposta di introdurre una norma che obblighi le grandi aziende a pubblicare un rapporto annuale sul “gender gap”, la differenza di trattamento economico e integrativo sul luogo di lavoro fra uomini e donne.

Secondo alcuni dati raccolti proprio dal centro studi della Camera dei Comuni, una donna britannica, nella sua vita, guadagna una media di 200mila sterline in meno di un uomo, oltre 250mila euro, e al momento la differenza di paga è attestata attorno al 9%, nonostante sia calata dal 1997 (anno in cui si iniziò a registrarla) a oggi. Più volte lo stesso premier conservatore Cameron ha sollecitato la politica e la società civile per una riflessione sul tema. E diversi quotidiani britannici, soprattutto il serale londinese “The London Evening Standard”, stampato in 2,5 milioni di copie, da tempo portano avanti una loro campagna per portare le donne allo stesso livello degli uomini. In termini di paga, di “benefit”, di diritti sul luogo di lavoro.

Il problema, a Londra, è sentito soprattutto nei grattacieli della City, uno dei templi della finanza mondiale, se non il tempio in assoluto. La legge in discussione, nel caso venga approvata, obbligherà le aziende con più di 250 dipendenti (e quindi anche le multinazionali con sedi in altri Paesi e che operino nel Regno Unito) a pubblicare una sorta di “rapporto sociale” ogni anno, tutto dedicato alla situazione delle donne in quelle stesse aziende e con le indicazioni delle misure prese dalla direzione per superare le diseguaglianze. Ora in Gran Bretagna si sta sviluppando anche un movimento di lavoratrici che puntano a ridurre il gap. E davanti al parlamento di Westminster e sotto il Big Ben, proprio mentre si votava, è andata in scena una manifestazione di supporto dell’associazione delle ex lavoratrici della fabbrica della Ford di Dagenham, estremo est della Grande Londra, dove nel 1967 ci fu una grande manifestazione per la parità del trattamento, poi ripresa dal film “Made in Dagenham” di Nigel Cole (in Italia uscito con lo strano titolo di “We want sex”). Ora il film è diventato anche un popolarissimo musical nel West End londinese, visto ogni sera da donne di tutto il mondo e persino le sigle sindacali da ogni parte del globo organizzano dei weekend a Londra per venire a vedere lo spettacolo.

In realtà la legge in discussione sarebbe un miglioramento dell’Equality Act, una legge contro la discriminazione introdotta a inizio del 2010. La legge era stata voluta dal Labour ma poi era stata messa in sordina dal governo Cameron, una coalizione fra conservatori e liberaldemocratici che evidentemente, nel maggio di quattro anni e mezzo fa aveva ben altro cui pensare. Ma ora si avvicinano comunque le nuove elezioni politiche, previste appunto nel maggio del 2015, e con esse si avvicina anche il bisogno, da parte dei Tory e dei lib-dem, di apparire più disponibili verso tutte le varie componenti della società. Donne manager e altamente qualificate comprese.

Certo, la nuova mossa per la parità di genere non è certamente dovuta solo a fini elettorali: voluta anche, chiaramente, dai principali sindacati della Gran Bretagna, la riduzione del “gender gap” è sempre stata una di quelle chimere del mondo del lavoro britannico. Ma, dicono ora le promotrici della legge, molte delle quali femministe o con un passato in questo movimento, ci sono anche altre battaglie. Dal welfare ritenuto insufficiente all’altissimo costo degli asili nido (anche 1.500 euro al mese a Londra) e degli asili, dalla riduzione degli assegni di Stato di aiuto alle madri dal terzo figlio in poi (paventata negli ultimi giorni proprio dal governo Cameron) fino a un mondo della finanza ritenuto sessista e violento: la lotta delle donne britanniche pare insomma aver trovato un nuovo vigore.

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